Nel marzo del 2004, su "la rivista del manifesto" diretta da Lucio Magri, Rossana Rossanda procedeva a una corposa riflessione sul tema "violenza-non violenza" e a una critica assai dura nei confronti del "revisionismo" di Bertinotti. Costui aveva fatto della "nonviolenza" la chiave per una messa in discussione dell'intera storia del movimento operaio, socialista e comunista, che veniva letta come militarizzazione, come assunzione di un canone e di una pratica (l'irriducibilità della lotta di classe) forieri di tragedie e sconfitte.
All'interno di questo più ampio discorso c'è un passaggio, tra storia e memoria, sul Pci nel secondo dopoguerra. E' quello che oggi "posto". Rossanda dice cose conosciute e perfino ovvie per il militante antico e onesto. Era quello che prima del diluvio non solo noi comunisti, ma storici e testimoni d'ogni tendenza riconoscevano come un dato di fatto indiscutibile: che il Pci (e anche il Psi, che qui a torto non si cita) aveva civilizzato e costituzionalizzato la lotta di classe, che erano altri a spingere sul terreno della violenza. Purtroppo oggi questa verità storica è da troppi ignorata o rimossa e a questa rimozione talora si contribuisce anche da sinistra. A me pertanto sembra che l'argomentare di Rossanda sia utile per la forza di convinzione e qualità della scrittura. (S.L.L.)
Una manifestazione per il lavoro a Milano nel 1948 |
Eravamo venuti da una guerra, è vero, e così orrenda che quando finì tendemmo di più a lasciarla alle spalle che a esaltare la vittoria - del resto l'essere italiani e pensanti non ci permetteva di scaricarne gli oneri e prenderci gli onori. Non fummo dei veterani. Avevamo così bisogno di ricominciare che tardammo perfino a capire la proporzione delle atomiche e a cogliere l'ampiezza della shoah.
Del ricominciare fece parte, almeno al Nord, il disarmare gli argomenti della resistenza rossa. La quale non veniva da smanie estremiste ma dalla impossibilità di scordare che non erano stati i tedeschi a fare la marcia su Roma, a chiudere il Parlamento, a bruciare le Camere del lavoro, a massacrare gli abissini e che non ci costrinsero con la pistola alla nuca a scrivere leggi razziali, a cacciarci in guerra e a deportare gli ebrei. Renzo De Felice la fa troppo facile. Erano i fascisti che ci facevano invadere dai tedeschi e i ragazzi di Salò che ne officiavano le basse opere. Per questo fu anche una guerra civile, come ha scritto Claudio Pavone.
Il fascismo lasciò scie sanguinose, seminò vendetta. Non è una delle sue colpe minori. Mi ha fatto senso sentire qualche giorno fa Piero Fassino ricordare le foibe come una trovata di Tito e non il frutto avvelenato delle imprese del generale Roatta, perché l'Italia miserabilmente pensò che la Jugoslavia sarebbe stata sua. Non è bella la resa dei conti, mi viene il vomito se ricordo Piazzale Loreto e la gente che ci passava davanti urlando. Ma mi fa ribrezzo la festosa riconciliazione con la parte che ci precipitò in guerra, e nei campi e nelle case di tortura, che consegnò gli ebrei quando non li fucilò nei campi di passaggio.
Soprattutto ho ben netto il ricordo di come costruimmo dopo il 1945 un partito che si dava come obiettivo una trasformazione del paese e dei rapporti di proprietà e di potere che vi dominavano, ma non mise mai la rivoluzione all'ordine del giorno. Come avrebbe potuto del resto in piena divisione del mondo, e l'Italia nella zona occidentale? Non eravamo matti. Ma sono convinta che per molti dirigenti, Togliatti incluso, che dell'Urss avevano avuto una chiara esperienza, il trovarsi all'Ovest non fu percepito come una disgrazia. La via italiana sarebbe stata altra, il che non rendeva il conflitto meno duro. Era irriducibile, acerbo, ma non armato. Dicendo guerra di classe non è che ci si apprestasse a militarizzarsi, preparare truppe o servizi occulti - quando lo tentò, o abbozzò, Secchia, fu liquidato. La famosa doppiezza andrebbe rivisitata.
Il fascismo lasciò scie sanguinose, seminò vendetta. Non è una delle sue colpe minori. Mi ha fatto senso sentire qualche giorno fa Piero Fassino ricordare le foibe come una trovata di Tito e non il frutto avvelenato delle imprese del generale Roatta, perché l'Italia miserabilmente pensò che la Jugoslavia sarebbe stata sua. Non è bella la resa dei conti, mi viene il vomito se ricordo Piazzale Loreto e la gente che ci passava davanti urlando. Ma mi fa ribrezzo la festosa riconciliazione con la parte che ci precipitò in guerra, e nei campi e nelle case di tortura, che consegnò gli ebrei quando non li fucilò nei campi di passaggio.
Soprattutto ho ben netto il ricordo di come costruimmo dopo il 1945 un partito che si dava come obiettivo una trasformazione del paese e dei rapporti di proprietà e di potere che vi dominavano, ma non mise mai la rivoluzione all'ordine del giorno. Come avrebbe potuto del resto in piena divisione del mondo, e l'Italia nella zona occidentale? Non eravamo matti. Ma sono convinta che per molti dirigenti, Togliatti incluso, che dell'Urss avevano avuto una chiara esperienza, il trovarsi all'Ovest non fu percepito come una disgrazia. La via italiana sarebbe stata altra, il che non rendeva il conflitto meno duro. Era irriducibile, acerbo, ma non armato. Dicendo guerra di classe non è che ci si apprestasse a militarizzarsi, preparare truppe o servizi occulti - quando lo tentò, o abbozzò, Secchia, fu liquidato. La famosa doppiezza andrebbe rivisitata.
La mia prima giornata tremenda, dopo la guerra, che mi si è inchiodata nella memoria è del 1948. Neanche due giorni dopo l'attentato di Pallante a Togliatti e dopo che Alberganti aveva gridato in Piazza Duomo: «Scio pe ro a oltranza fino alla caduta del governo», fui spedita all'Autobianchi a far dismettere l'occupazione. Gli operai avevano occupato le fabbriche al primo giungere della notizia. E dovevano sgomberare senza aver ottenuto la ca duta del governo né niente. Non fu semplice, avevo 24 an ni, non ero nessuno, quelle facce tirate, attente, non sempre giovani, scrutavano con diffidenza la compagna che veniva a dire: basta, bisogna uscire. Non mi presero a troppo male parole, non dettero in escandescenze, non agitarono rivoluzioni tradite, ma i loro ragionamenti pesavano come piombo. Avevano ragione di temere l'indomani che si profilava a pochi giorni dal 18 aprile. Di scutemmo per ore, alla fine sgombrarono e tornarono a casa a mani vuote, accompagnando fino al tram la com pagna messaggera del partito strizzata come un panno.
Aspettando l'ora x? Ma via. E stento a credere che l'aspettasse la direzione del Pci, utilizzando noi piccoli funzionari per contarla su alle masse. E quali masse, tutti gattini ciechi? Non ricordo così né i vecchi né i giovani compagni del Nord, neanche i più rigidi. E a Roma sentivo scherzare sul `ha da venì Baffone'. C'era molta autoironia nelle sezioni romane anche se, settentrionale superbiosa, le trovavo più popolane che proletarie. Conosco per filo e per segno quel che restò di amaro della Resistenza, ed era più delusione che attesa di ore finali.
Noi comunisti non riducemmo il conflitto a una aspettativa messianica, esterna, in quel caso l'arrivo dell'Armata rossa; lo praticammo, lo civilizzammo, gli demmo ragione, senso e determinazione. Mutarono molte vite. Combattemmo - ahimè che parola - la rassegnazione, l'abitudine al servaggio, acculturammo il paese. Era un partito pesante, faticoso, povero, ostinato, poco flessibile, spesso schematico, diviso non solo fra vecchi e giovani, ma su quel che giorno per giorno, anno per anno si poteva o si doveva fare. Ci trovavamo all'interno di una Costituzione cui avevamo lavorato, che ci dava spazio e pensammo che se ne sarebbe potuto superare, con il consenso della maggioranze del paese, il limite della proprietà. E fra i dirigenti del Pci Ingrao rappresentava l'ultimo che semplificasse le cose, che si contentasse di slogan, che non ci ammonisse alla complessità. E non mi pare che fosse circondato da una direzione assatanata di rivolte.
Nessun commento:
Posta un commento