Su “micropolis” di dicembre è apparso un articolo che qui ripropongo ad uso dei non umbri che frequentano questo blog, una commemorazione di Lucio Magri. Mi sembra tra le cose più profonde e ben scritte che mi è accaduto di leggere sull’argomento. L’autore è Renato Covino, il punto di vista è quello dei compagni perugini che negli anni settanta animarono il centro del “manifesto” di via Raffaello e alla fine degli anni Settanta fondarono “Segno critico”. (S.L.L.)
Lucio Magri ha scelto di morire. Vivere gli era diventato, per motivi personali e non solo, insopportabile. Lo avevano messo a dura prova la perdita di sua moglie, che lo aveva gettato in una profonda depressione, e il crollo delle speranze politiche e di cambiamento della società che lo avevano guidato per tutto il corso della sua vita. Riteneva che il suo tempo fosse finito, che quello che poteva fare in una situazione come quella che oggi viviamo fosse irrilevante, pensava di non avere più né le capacità, né l’autorità, né il prestigio per poter giocare un ruolo di qualche utilità. Si può discutere se ciò fosse vero o meno, ma resta pur sempre il fatto che una scelta così radicale merita il massimo rispetto.
Ha fatto impressione il modo in cui Magri ha deciso di porre fine alla sua vita, la programmazione accurata, il ricorso ad una clinica svizzera, la discussione con amici e compagni. La successione degli eventi ha ricordato a chi scrive un bel film franco-canadese, Le invasioni barbariche, dove la scelta del protagonista è analoga a quella che Lucio Magri ha fatto, ma al di là della forma resta la sostanza: non è stato un medico a somministrargli i farmaci, si è limitato solo a fornirglieli, per il resto l’esercizio della scelta è stato fatto il piena autonomia. Resta il moralismo imperante, le reprimende di preti e cattolici di turno: “non aveva diritto”, “la vita è sacra”, ecc… Ma se gli uomini non sono neppure padroni di scegliere come e quando morire a che si riducono il libero arbitrio e la libertà delle persone?
Ciò detto preferiamo ricordare Magri vivo, per quello che ha fatto e per il ruolo che ha giocato nella sinistra italiana. Lo facciamo senza indulgenze e senza nascondere che spesso molti di coloro che fanno parte della redazione di “micropolis”, almeno i più vecchi, hanno avuto con lui più momenti e
motivi di contrasto che di accordo.
Lucio Magri era un impasto di estremo realismo - l’attenzione per le forze in campo - e al tempo stesso di assoluto utopismo. Al primo si deve uno degli elementi salienti del suo agire politico, la volontà di incidere, con “il manifesto” prima e con il Pdup poi, sul corpo vivo della sinistra italiana, sul Pci in primo luogo che per lui non era solo il luogo dove si concentrava il grosso delle forze operaie e popolari italiane, ma anche un’esperienza diversa e originale nel contesto del comunismo internazionale. Al secondo, l’utopismo, va ascritta quella sua convinzione che individuava nel decennio settanta del Novecento i germi di quello che definirà “il bisogno di comunismo” ossia l’idea che lo sviluppo delle forze produttive avesse raggiunto un tale livello che era possibile, su base mondiale, organizzare un sistema in cui si potesse pretendere da ognuno secondo le sue capacità dando ad ognuno secondo i suoi bisogni. Ciò poneva in sottordine il tema del dominio e riprendeva un’idea - mai tramontata - che il capitalismo avesse raggiunto la sua fase finale, prossimo al crollo.
Da questa convinzione nasce nel 1974 l’idea che si fosse ormai giunti ad una crisi di sistema, che gli spazi del riformismo fossero ormai esauriti e che fosse possibile indurre significativi mutamenti nel sistema economico ed istituzionale italiano e non solo. E’ questa una tematica che lo avvicinava più a Rosa Luxemburg che a Lenin. Come si ricorderà la grande rivoluzionaria polacca, nel pieno della guerra, puntava alla rifondazione della vecchia internazionale più che alla costituzione di una nuova, mentre individuava nella fine dei processi di accumulazione capitalistica il motivo portante di una ipotesi rivoluzionaria. Su ciò, da parte nostra, si registrava un dissenso che non era poi così banale. La nostra idea era che, per un verso, il Pci avesse esaurito il suo ruolo, che la sua diversità non era sufficiente per provocarne una riforma e una svolta a sinistra, mentre eravamo convinti che il “bisogno di comunismo” non bastasse ad indurre un processo rivoluzionario, ma occorressero un nuovo partito ed una cultura nuova rispetto a quella comunista degli anni cinquanta e sessanta. Ancora, pensavamo che il tratto caratterizzante la situazione italiana fosse la crisi politico istituzionale, quella che chiamavamo e continuiamo a chiamare “crisi di regime”, piuttosto che la crisi di sistema e che da qui occorresse partire per individuare un percorso di cambiamento radicale.
Fatto sta che oggi tale dibattito appare datato.
Il “bisogno di comunismo” non è all’ordine del giorno, il Pci non c’è più, la crisi di regime non si è risolta né a destra né a sinistra, ma si è dapprima cronicizzata e poi ha provocato un generale processo di putrefazione-decomposizione della società e delle istituzioni italiane. Queste consapevolezze hanno portato negli anni novanta ad una convergenza tra alcuni di noi e Magri, specie dopo lo scioglimento del Pci dove lui era confluito con il suo Pdup durante gli anni ottanta. L’ordine del giorno era come evitare fughe avanguardistiche e lavorare per mantenere aperti spazi di agibilità politica per le masse lavoratrici. Insomma siamo anche noi confluiti nell’“ipotesi realista” dell’impianto di ragionamento magriano, nella convinzione che si dovesse agire sulla base di un “anticapitalismo ragionevole”. A ciò s’informò la nostra azione negli anni in cui militammo in Rifordazione. Fu un’impresa impossibile. Si opponeva ad essa la fedeltà ad una tradizione evidentemente stalinista e terzinternazionalista che si alleò con gli umori gruppettari degli anni sessanta e settanta e che fu ben rappresentata dalla segreteria Bertinotti che pure avevamo favorito. Né meglio andò l’esperienza dei Comunisti unitari (il gruppo nato dalla scissione del Prc) che alla fine decisero, senza Magri, Luciana Castellina ed Eliseo Milani (e senza noi), di confluire nei nascenti Ds.
Magri si ritrovò isolato dagli stessi compagni che con lui avevano compiuto un lungo tratto di strada, senza solidarietà politiche forti. Provò a rilanciare con la “Rivista del manifesto”, un’esperienza editoriale coronata da successo, che aveva l’ambizione di rimettere in rete la sinistra comunista e che fu minata dai tentativi di egemonismo bertinottiano e dell’acquiescenza di Ingrao, nel frattempo confluito nel Prc, nei confronti di tale ambizione. Alla fine la rivista chiuse. Resterà nella memoria di chi scrive l’intervento di Rossana Rossanda che sostenne che l’adesione d’Ingrao a Rifondazione le aveva provocato più dolore del suo voto favorevole alla radiazione del gruppo de “il manifesto” dal Pci.
Magri si trovò solo, senza più strumenti, costretto all’inattività. Cercò di reagire attraverso la scrittura del suo libro Il sarto di Ulm, il cui intento era quello non solo di fare la storia del comunismo internazionale ed italiano, ma di individuare le possibilità di cambiamento, i possibili punti di rinnovamento, di innovazione teorica e di azione politica, secondo un metodo, sempre più viene utilizzato nelle discipline storiche, che è quello della controfattualità. Ne è uscito un volume originale, non condivisibile in tutto, ma che centra il suo scopo: quello di riportare la discussione su un tema ormai eluso, dimenticato anche da coloro che continuano a considerarsi comunisti. In ciò aveva assolutamente ragione: senza riappropriarsi del passato, sottoponendolo ad un vaglio critico, è difficile capire quanto sta succedendo, ma soprattutto reagire, riprendere l’iniziativa. Insomma Magri appare dal libro sconfitto ma non rassegnato; ciò nonostante l’unico modo che ha trovato per reagire alla rassegnazione, al lasciarsi vivere, è stato morire. Il suo suicidio è stato anche l’estremo tentativo di non darsi per vinto. Sapeva che la sconfitta per un rivoluzionario non è mai un dato definitivo, che si è veramente sconfitti quando ci si adegua allo stato di cose presenti. Ha risposto come ha ritenuto giusto. Con un urlo silenzioso.
“micropolis” dicembre 2011
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