Sono trascorsi settant'anni dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia. Un tema di cui sempre più spesso si fa un uso pubblico distorto, volto a isolare i provvedimenti del 1938 dal fascismo nel suo insieme e, di conseguenza, a relativizzare i caratteri strutturalmente violenti e illiberali di quel regime e le sue aspirazioni totalitarie. Certo non aiuta a una maggiore consapevolezza il successo pubblicistico di un'insistita vulgata anti-antifascista tesa ad affermare l'idea che in Italia il razzismo non fu un fenomeno radicato, ma il frutto tardivo dell'opportunismo di Mussolini e che le leggi razziali vennero applicate all'acqua di rose. Davanti a un simile scenario in cui l'urgenza della cronaca e gli interessi delle opposte propagande si mescolano a correnti culturali profonde, la prospettiva storica può forse agire come un fascio di luce in grado di illuminare il volto oscuro di tanti stereotipi del tempo presente e aiutare a capire meglio il nostro stretto, ma stratificato paese.
A questo proposito giunge particolarmente opportuno il libro di Francesco Cassata «La difesa della razza». Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista. Il giovane autore ricostruisce una storia mai raccontata prima, quella del periodico fascista La difesa della razza, fondato a Roma nell'agosto 1938, che cessò le pubblicazioni nel giugno 1943. Il saggio è la storia di un progetto culturale, ma anche dell'intellettuale che lo promosse, il siciliano Telesio Interlandi, giornalista dalla prorompente personalità, la cui avventura attrasse anche Sciascia che avrebbe voluto dedicargli il suo ultimo romanzo. Ancora più soverchiante fu la compagnia di «antisemiti di penna» da lui riunita, di cui Cassata ricostruisce con notevole finezza la parabola: i rapporti con l'università, le tensioni con il Vaticano, le rivalità interne al regime, le formidabili ascese, le ambizioni frustrate, l'indefessa fedeltà al duce, arbitro e giudice delle loro fortune. Il legame diretto tra Interlandi e Mussolini garantì alla rivista il sostegno istituzionale del MinCulPop, quello economico delle principali banche e un'ampia diffusione, favorita dal costo contenuto, dall'accattivante veste grafica e da una tiratura di lancio di 140.000 copie. L'autore fa giustizia di due luoghi comuni che spiegano perché questa rivista sia stata più citata che studiata.
In primo luogo, La difesa della razza non fu una tabe scaturita dall'esigenza contingente dell'alleanza con Hitler, bensì il prodotto di una lunga incubazione, che recuperò stilemi tardo ottocenteschi dell'antisemitismo europeo di stampo irrazionalista e rivitalizzò atteggiamenti presenti in una parte non minoritaria della tradizione cattolica italiana. Fra questi intellettuali il razzismo, l'antidemocraticità, il disprezzo anti-borghese furono scelte profondamente vissute, insieme con l'odio verso l'ebreo visibile, ma soprattutto nei confronti di quello invisibile, «quell'animale estraneo, che è ospite occasionale del paese italiano. E' l'ebreo, è il mezzo ebreo, è il discendente di accoppiamenti occasionali fra italiani e stranieri, è il nazionalizzato di fresco, è il meticcio». In secondo luogo, si approfondiscono come non mai le diverse correnti in cui si articolò il razzismo fascista, il che rende impossibile ogni forma di indulgenza per qualsivoglia versione: quella biologica di Interlandi e dei seguaci Almirante, Landra, Lelj, Sottochiesa, quella nazionalista di Acerbo e di Pende e quella esoterica-tradizionalista di Evola e Preziosi. Infatti, secondo Cassata, quando si passa dal livello politico a quello ideologico, la contrapposizione si attenua e prevale un «sincretismo» che costituisce la summa di tutto il razzismo fascista: «la biologia si culturalizza e la cultura si biologizza». Tra le pagine più interessanti, quelle in cui si analizzano le modalità con cui era orchestrata la rubrica della posta: un coro di voci anonime, dal professore di scuola al «liceale avanguardista», fino alla «giovane impiegata» che chiedeva l'applicazione di un «BRACCIALE GIALLO» per gli ebrei, plurisecolare pratica cromatica che i ghetti della Controriforma avevano reso familiare: «Ciò è molto importante perchè il governo fascista, eliminando gli ebrei dall'esercito, dalla scuola e dagli impieghi pubblici, ci difende soltanto in parte da questi parassiti» e dunque come riconoscerli e tenerli lontani? Quella «giovane impiegata» oggi potrebbe avere l'età dei nostri nonni. Il razzismo è una bestia velenosa, che cambia colore adeguandosi ai tempi, simile al mostruoso nemico evocato da Benjamin: anche i morti non saranno al sicuro se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere. Vive, ad esempio, nei preamboli di tanti discorsi quotidiani, in cui la scaltrezza e l'innocenza appaiono miracolosamente amalgamati: «Non sono razzista, però...». Però, leggiamo questo libro, de te Italia fabula narratur.
Da "La Stampa"13-10-2008
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