5.12.11

La morte di Lucio Magri. Una scelta di libertà (di Eros Barone)

Alla notizia della morte di Lucio Magri, il caro compagno Eros Barone, ha inviato al quotidiano online “Varese news”, una breve riflessione: “Ho appreso soltanto ora che Lucio Magri, uno dei fondatori del “manifesto” ed esponente fra i più colti e sagaci della sinistra italiana, ha deciso di porre termine, con il suicidio assistito, ad una vita che era diventata per lui insopportabile: una scelta degna degli antichi romani e conforme alla dottrina stoica, in radicale antitesi con ogni tipo di eteronomia teistica e con la forzata biofilia che ne consegue. Il potente aforisma spinoziano, secondo cui ‘l'uomo libero non pensa a nulla meno che alla morte, e la sua sapienza è meditazione non della morte, ma della vita’, vale anche per lui, ma con la seguente integrazione: ‘quando l’uomo non è più libero, ma è oppresso dai mali più diversi, solo la scelta di morire può recargli quella libertà che sente di aver perduto’. Ciao, Lucio, e grazie per tutto quello che ci hai insegnato”.
In una sua lettera replica Antonio De Biase, cattolico e uomo di sinistra: “E' un ragionamento questo (quello di Barone, ndr.) che presuppone una certezza: è il corpo o comunque ciò che noi chiamiamo vita a dare la sofferenza, tolta la vita la sofferenza, la depressione e l'infelicità finiscono.
Sarà vero? Personalmente non ho una fede abbastanza grande per sostenerlo, trovo però che certe tesi siano molto ardite, perché la grandezza del nostro libero arbitrio non è meno vasta delle sue conseguenze”.
Interviene infine, con una sua nota, Gian Marco Martignoni che cita Epicuro e la sua Lettera a Meneceo sulla morte, per esprimere rispetto profondo per la scelta del “caro compagno Lucio Magri”.
Eros Barone, sollecitato soprattutto dalle parole di De Biase, ha voluto – più che replicare – organizzare un più argomentato intervento sul tema che a me sembra una bella pagina di filosofia morale e di filosofia politica. (S.L.L.) 
Per il dibattito su Varese News cfr.  



































L’importante non è vivere ad ogni costo, ma vivere bene 
Nella discussione che si è sviluppata sul quotidiano online “VareseNews” a proposito del suicidio di Lucio Magri Antonio di Biase avanza, a proposito del mio commento sulla morte di Lucio Magri, un’obiezione che, pur essendo formulata con la finezza che gli è consueta, rivela l’intenzione ammonitoria del credente e si conclude con uno splendido epifonema, in tutto degno del sermone di un padre della Chiesa: “la grandezza del nostro libero arbitrio non è meno vasta delle sue conseguenze”.
Premesso che non desidero essere preso per un emulo del filosofo cirenaico Egèsia, passato alla tradizione come il “Peisithánatos” (‘persuasore di suicìdi’), e che il mio vivo amore per la vita sta più in alto della mia serena accettazione della morte, osservo che questa, una volta depurata dalla innaturale paura (e sottolineo “innaturale”) che l’accompagna, non solo, come la “livella” di Totò, ripristina l’originaria eguaglianza tra gli uomini, ma li libera dalla persecuzione dei loro nemici (e Tonino conosce bene ciò a cui mi riferisco), dalla oppressione dei tiranni (oggi più che mai gravosa e soffocante, anche se viene eufemisticamente denominata “gradimento dei mercati”), dalle inquietudini che ci travagliano, dalle angosce che ci tormentano e dalle infermità che ci martirizzano: in una parola, da tutte le nostre miserie. Per questo motivo, darsi la morte, lungi dal costituire una manifestazione di debolezza, come affermava Agostino, diventa, all’opposto, affermazione della libertà e della dignità umane, soprattutto quando la vita sia diventata un fardello insopportabile. È chiaro che agisce, in questa visione, il convincimento mutuato da Seneca (autore al quale mi sono implicitamente riferito nel mio commento sulla morte di Lucio Magri) secondo cui ciò che importa non è tanto vivere ad ogni costo, quanto vivere bene. Da questo punto di vista, la saggezza consiste allora nel sapere scegliere quando, avendo esaurito le nostre potenzialità, occorre abbandonare la vita, quando, cioè, decidersi a favore di una fine certa contro un’esistenza il cui protrarsi è soltanto doloroso e umiliante.
Per altro, che il nostro essere, sìnolo indissolubile di corpo e anima, a cui è organicamente connessa la nostra felicità e da cui Tonino vorrebbe staccare l’anima in quanto essenza immateriale, incorruttibile e imperitura, che il nostro essere, dicevo, sia destinato a risolversi nel moto universale (e sottolineo “universale”) della materia, la quale, tramutandosi incessantemente, crea e distrugge componendo, scomponendo e ricomponendo i suoi elementi costitutivi, è per me altrettanto evidente quanto il carattere illusorio, consolatorio e sostanzialmente egoistico della credenza circa l’immortalità dell’anima individuale. Laddove, nell’ottica materialistica in cui mi riconosco, anche la morte non rappresenta più una condizione definitiva, bensì un processo di dissoluzione in virtù del quale una determinata configurazione si scioglie per ricomporsi in un’altra forma. Proprio perché nulla può provenire dal nulla, non può esservi in alcun modo un annichilimento definitivo.
Dalla credenza, che ha come presupposto l’eteronomia teistica, ossia l’idea secondo cui l’uomo è stato creato da un Dio trascendente ed è perciò tenuto ad obbedire alla sua volontà e alla sua legge, deriva invece quella forzata biofilia, cioè quell’amore della vita predicato a chi la sente ormai come insopportabile, che ho denunciato nel mio commento. Naturalmente, Tonino, il quale è il primo a sapere che l’epoca in cui le caste sacerdotali si servivano della paura della morte e del terrore dell’aldilà per imporre il proprio dominio è formalmente finita (la nostra, quanto meno nei paesi occidentali, è l’epoca ipocrita e compromissoria della rimozione della morte dall’orizzonte sociale), ha tutto il diritto, a questo punto, di muovermi l’altra obiezione secondo cui il mio ragionamento “presuppone una certezza: è il corpo o comunque ciò che noi chiamiamo vita a dare la sofferenza, tolta la vita la sofferenza, la depressione e l’infelicità finiscono”.
Il problema, che il caro amico mi propone, è un problema teologico, che è quanto dire (nell’ottica feuerbachiana) squisitamente antropologico, riguarda, cioè, la visione della natura dell’uomo e le conseguenze morali che ne discendono. Gli risponderò quindi, sulle orme di Spinoza, “maestro di color che sanno” dell’età moderna, così come Aristotele lo fu dell’età antica e medievale, che gli uomini non sono inclinati né al bene né al male, ma si orientano nell’esistenza al fine di soddisfare il principio di ‘autoconservazione’, ossia lo sforzo, che è proprio di ogni cosa, di perseverare nel suo essere, e lo fanno assumendo il bene e il male fisico quali criteri di riferimento. È bene ciò che è in accordo con le leggi della natura umana; è male ciò che pone in contrasto con essa, forzandola (e sottolineo “forzandola”) a fare ciò che non vuole. In altri termini, spetta agli uomini (a ciascuno di essi) fare buon uso di quanto la natura ha fornito loro, ivi compresa la facoltà di porre termine alla propria vita. È dunque in tale contesto filosofico che si inserisce e si spiega la mia affermazione secondo cui, “quando l’uomo non è più libero, ma è oppresso dai mali più diversi, solo la scelta di morire può recargli quella libertà che sente di aver perduto”.
In conclusione, sono queste le ragioni filosofiche e morali, laiche e materialistiche, per cui nella vicenda della morte di Lucio Magri io leggo non solo il coraggio, la lucidità e la tensione etica che hanno caratterizzato tutta la vita di questo compagno, ma anche la sobria e, nel contempo, radicale affermazione della libertà e dignità umane contro ogni potere che, in ossequio ad un principio assoluto, ne voglia impedire l’esercizio.

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