Circola da almeno un decennio una tesi: che il movimento operaio, il socialismo, il comunismo siano marchiati, nella propria storia, dallo stigma della violenza, e che sia questo il peccato originale, la colpa incancellabile che rende necessario il totale abbandono delle vecchie teorie e delle vecchie pratiche, in nome di un nuovo socialismo (o comunismo) dai contorni tuttora piuttosto indistinti. E’ una tesi che in Italia ha avuto grande successo perfino tra coloro che, dopo l’89, hanno continuato a chiamarsi comunisti, soprattutto sulla spinta del fascinoso Bertinotti, cui non è sembrato insensibile Pietro Ingrao. All’argomento Fausto Bertinotti ha dedicato articoli, relazioni e libri, tra cui uno (La pace infinita) scritto in combutta con Alfonso Gianni e un altro (Non violenza. Le ragioni del pacifismo) in dialogo con Lidia Menapace e Marco Revelli. Una delle critiche più nette, chiare ed efficaci di codesto tipo di non-violenza, che si presentava come neocomunista e che peraltro continua a imperversare, l’ho trovato in un lungo articolo che nel marzo 2004 Rossana Rossanda pubblicò su “la rivista del manifesto” diretta da Lucio Magri. Ne propongo qui la prima parte. (S.L.L.)
L'idea socialista nasce come ribellione a una disuguaglianza di fondo, a un'ingiustizia che va rifiutata, si percepisce come lotta, incontra una repressione durissima. Gli eserciti ci sono ma da una sola parte, si gettano a cavallo contro i primi scioperanti. Matura l'idea di una rivoluzione come cambiamento delle ascisse e delle ordinate del sistema di proprietà di produzione di stato. Per questo nell'ultimo suo libro, scritto con Alfonso Gianni, Fausto Bertinotti accusa il movimento operaio e comunista di aver fatto propria la teoria e la pratica dello scontro distruttivo del nemico. Esse si sono verificate nella storia del secolo e sono confessate dal linguaggio: lotta di classe, combattere. Come cantava l'Internazionale? «È lo scontro finale ...», e più tardi «Ecco che arriva uno strano soldato - è la guardia rossa». È vero che è un soldato strano perché non porta armi, ma è sempre una figura di guerra. E questo viene oggi rimproverato da varie parti, anche da Pietro Ingrao.
Gandhi c'entra poco perché la sua non è una rivoluzione sociale - è stata una resistenza disarmata al colonialismo inglese e ne ha accelerato la crisi, non altro, perché l'India venera il mahatma ma non ne applica alcun precetto. Né il destinatario della polemica sono i movimenti di protesta affinché non cadano in gesticolazioni estreme. Il bersaglio è la tradizione comunista e la sua lunga presenza sulla scena europea. La critica va alle origini, fin alla marxiana «violenza come levatrice della storia». Tutta la Terza Internazionale viene presa a partito (con qualche penosa distinzione, Rosa Luxemburg sì, Lenin no, il 1917 è stato una sciagura, non del tutto, per due terzi, per tre quarti) e infine i partiti comunisti.
Ma ha veramente senso accusare il movimento operaio di ispirazione marxista di una vocazione violenta e fin militarista? Non voglio infilarmi nella filologia dell'uso di termini come guerra, violenza, lotta nel lessico politico. Dopo il 1848 lo scontro assume radicalità nel senso proprio che, per Marx, l'opposizione fra lavoro e capitale non può comporsi dialogicamente. Ma come scordare che gli eserciti e la guerra sono denunciati fin dai primi socialisti come strumento delle classi dominanti, che il movimento operaio nasce internazionalista e ne porta il peso con l'accusa di essere infido sotto il profilo patriottico, tanto che sulle guerre del proprio paese di regola si spacca? E poi la guerra punta al dominio d'un altro territorio, il conflitto sociale punta al mutamento dei rapporti di produzione nel proprio paese. Non mira a conquiste nazionali, non vuole sudditi. Per esso l'umanità è divisa orizzontalmente dalle differenze di proprietà, poteri, classe, mentre gli stati sono espressioni verticali di una territorialità. E Marx, se appena si eviti di aggrapparsi a una citazione, sottolinea l'insufficienza della presa del potere, quand'anche si verifichi dentro una guerra civile (Comune di Parigi). Se c'è stata un'innovazione nel paradigma classico del politico è quella del marxismo.
Si obietta che la rivoluzione del 1917, anche se non militare, ha dato luogo a uno stato, dotato di un esercito che ha colorato di sé il movimento comunista internazionale. È vero entro un certo limite: la difesa dello ‘stato operaio’, ‘fortezza assediata’ non è stato il nocciolo fondativo dei partiti comunisti, anche se ha contato nella guerra fredda. E che ci fosse un problema era chiaro alla Terza Internazionale, che si è dibattuta sull'interrogativo se potesse darsi il socialismo in un paese solo, isola in un mondo diverso e avverso, e quindi necessitato a difendersi. Il giovane paese dei soviet doveva farsi stato e armarsi. Su questo il gruppo leninista si divise, l'assedio esterno e i limiti interni dei dirigenti rimasti in lizza indussero presto a privilegiare la tenuta politica rispetto alla trasformazione sociale. Scelta contraddittoria rispetto alle priorità dello stato: quando queste prevalgono la rivoluzione sociale cessa.
Bisognava dunque non fare il 1917? Questo fu il dilemma allora e sarebbe utile che i non violenti vi rispondessero oggi. «Trasformare la guerra in guerra civile» era una parola d'ordine bellicista, anche se fece cadere l'autocrazia in nome della pace e del pane, la vera guerra civile essendo dichiarata due anni dopo dai generali fedeli allo zar? L'Unione Sovietica fu uno stato espansionista? Ha ragione Nolte nel sostenere che il nazismo è stato una reazione alla sua minaccia? Facciamola una buona volta questa storia, o taciuta o maledetta. Invece di farla, l'attuale riproposta della nonviolenza arriva più o meno esplicitamente qui: quali che siano le intenzioni, pacifiche ed egualitarie, qualsiasi rivoluzione incontra questo dilemma e lo scioglie al peggio. E non solo per quel di lesivo dell'altro che ha il togliere ad alcuni proprietà e potere, sia pure per ripartirli fra chi ne era privo, ma per le dinamiche che ricostituiscono un nuovo ordine di comando. In ogni rottura agisce una eterogenesi dei fini.
È un paradigma assoluto quanto indimostrabile. Non è scritto che in ogni paese e circostanza debba andare come nell'Unione Sovietica di quasi un secolo fa. Sicuramente una liquidazione della proprietà e di una forma di stato non avviene col loro consenso, sicuramente nei momenti acuti dello scontro ci sono stati morti e feriti, anche se i morti li ha fatti più il potere investito che coloro che lo attaccavano. Sicuramente la costruzione di una nuova struttura di governo subisce la tentazione dell'avanguardia, prima ancora di quella della sclerosi burocratica, e di più nei paesi sottosviluppati. Ma si vuol sostenere che sarebbe stato meno mortale mantenere l'autocrazia in Russia? Che sarebbe stato più opportuno lasciare che l'unità d'Italia si facesse per osmosi? Che senza le rivoluzioni del Novecento saremmo in una società migliore? Quando si enuncia una tesi, sarebbe opportuno chiarire fin dove si intende portarla.
Quel che più mi sembra offendere il principio di realtà è che la violenza stia nella ribellione. Come Tronti, penso che la violenza è inscritta nel sistema dominante. E non solo né particolarmente nelle armi o nelle botte. Quel che ho appreso da oltre mezzo secolo è che se sono violenti tutti i rapporti di soggezione, la violenza nel modo di produzione capitalistica è la più perfetta perché inerente al meccanismo, astratta, che riproduce ineguaglianza, esclusione, arretratezza - limitate e eternizzate da una democrazia politica fondata sulla proprietà. Sono violenti i poteri mondiali non solo quando fanno la guerra ma nell'ordinamento che impongono quasi che fosse legge di natura. È violento lo schema originario del rapporto fra uomini e donne e tanto più in quanto si è introiettato. O sarebbe violenza solo quella di chi sfonda la zona rossa con un corteo? Quando le operaie della Borletti, negli anni Cinquanta, furibonde perché gli tagliavano i tempi, si risolvevano a protestare, cominciavano con lo spaccare a zoccolate qualche vetro della direzione: erano loro le violente? Non è violenza mandare in tribunale i tranvieri che hanno di recente scioperato e non le aziende semipubbliche di trasporto che violano da oltre due anni il contratto con i dipendenti? Non lo sono, perché incorporei, i meccanismi del sistema e lo sono invece i corpi dei lavoratori per strada, le poche volte che vi scendono?
Nessuno lo sosterrà, credo. Obietterà: ma se questa violenza non si può eliminare con uno scontro, è inevitabile che lo scontro macchierà ambedue le parti. Da parte nostra, «il manifesto», lo dicemmo in tempi non sospetti, ma non ne derivammo la rassegnazione all'esistente e ai tempi lunghi, non calcolabili di una riconciliazione fra capitalisti e non, oppressori e oppressi. Pensiamo, penso, che dei pericoli degenerativi di ogni rivoluzione si debba, ma ormai anche si possa, fare conto. Si direbbe che la storia del comunismo dagli anni Venti in poi non sia stata anche una seria riflessione sulla sconfitta della rivoluzione in Europa, cioè sulla natura dello scontro, la sua maturità e immaturità. Che Gramsci non sia esistito. Il discorso della ‘presa del potere’ era chiuso in Occidente da ben prima del 1945. E se mai fu pensato come colpo di stato, manovra militare - cosa che discuterei - l'attuale asimmetria delle forze lo renderebbe folle. Chi si propone di prendere d'assalto Palazzo Chigi o la Casa Bianca?
Non è questa la preoccupazione che alimenta il processo retrospettivo al movimento operaio: è il venir meno della pensabilità, e quindi liceità, di una alternativa di fondo al sistema attuale, e l'azzeramento di Marx. Si rifiuta che questo, detto molto approssimativamente ‘del lavoro’, resti il tema irrisolto, più che mai chiave del presente.
Da Nonviolenza: tra principi e politica. Processo alla violenza, «la rivista del manifesto», marzo 2004
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