4.12.11

Il conte di Montecristo. Un romanzo polifonico (di Lanfranco Binni)

Il Conte di Montecristo ed Edmond Dantès fermentano nella mia immaginazione fin da quando un grandissimo raccontatore, un mio bisnonno che chiamavamo con il cognome “nonno Cordone”, mi teneva avvinto con la barba dell’abate Faria, con la perigliosa fuga o con la terribile vendetta. Il libro di Dumas non ce l’ho. L’ho letto da ragazzo, quando vuoi leggere tutto e subito; e una seconda volta in un’estate lontana, a casa d’uno zio di mia moglie di cui eravamo ospiti. Anche quella volta piuttosto di fretta. Piacere breve, ma intenso…
Com’è ovvio del Conte ho visto una o due trasposizioni cinematografiche, una o due trasposizioni televisive; ma ricordo con ancora più gusto la magnifica parodia canora nella Biblioteca di Studio Uno, con i Cetra in forma smagliante.
Parlando del romanzo con gli allievi e con gli amici ho sempre respinto la formula ingegnosa ma fuorviante che è cara ad Eco, quella del “superuomo di massa”, e ho spesso detto che nel Conte di Montecristo si realizza il felice, fascinoso connubio tra un archetipo dell’Occidente con un mito dell’Ottocento, scaturito dalla storia recente. L’archetipo è Odisseo. Non quello politropo e multiforme e neanche quello di tutto curioso che – per dirla con Baudelaire – sprofonda nell’abisso dell’Ignoto in cerca del Nuovo, ma l’Inesorabile, quello che uno dopo l’altro trafigge e punisce i malvagi che ne hanno insozzato la casa. Il mito storico è Napoleone, l’Imperatore. In molte pagine è adombrato il suo ritorno miracoloso e trionfale dall’isoletta ove volevano recluderlo per sempre.
Oggi, nel sito di Lanfranco Binni, leggo l’introduzione da poco riscritta alla traduzione da poco rifatta dell’opera di Dumas per i Grandi Libri di Garzanti. Non è la negazione di quel che pensavo e dicevo, ma si tratta di una interpretazione più attenta alla costruzione letteraria: vi si legge di una poetica originale, di un romanzo stratificato e polifonico. M’è venuta curiosità. Voglio comprarlo e rileggerlo. Intanto “posto” uno stralcio di quella introduzione. (S.L.L.)


Romanzo di ventura, scorribanda eccentrica e originale tra linguaggi, tradizioni, situazioni e culture, sullo sfondo della Francia contemporanea e di un passato recente e ancora sensibile, Il conte di Montecristo è l’applicazione complessa di una poetica e di un metodo di attraversamento e metamorfosi del reale che Dumas ha sviluppato nel corso degli anni.
Nel 1843 gli editori Béthune e Plon propongono al Dumas autore di numerose e fortunate impressions de voyage una sorta di guida di Parigi, nella formula del viaggio d’autore nel quale si incontrano luoghi, aneddoti, informazioni storiche, impressioni personali [...] In pochi giorni Dumas trasforma la proposta iniziale della guida nella prima idea di un romanzo che, ambientato nella Parigi contemporanea, ne scavi le dinamiche più nascoste, sui confini tra realtà e immaginazione. Riemergono allora le suggestioni di Crimes célèbres (Delitti celebri), certe letture di fatti di cronaca, in particolare le pagine di un archivista della prefettura, Jacques Peuchet, autore di Mémoires historiques tirée des archives de la police de Paris (Memorie storiche tratte dagli archivi della polizia di Parigi). Dei mémoires di Peuchet una storia soprattutto ha colpito l’immaginazione di Dumas: quella, raccontata nel capitolo Le Diamant et la Vengeance (Il diamante e la vendetta), di un giovane operaio, François Picaud, che alla vigilia di un felice matrimonio viene denunciato da un amico invidioso come agente degli inglesi; in carcere dal 1807 al 1814, si trova in cella con un ricco prelato milanese che, morendo, lo lascia erede di un tesoro nascosto a Milano. Alla caduta dell’Impero Picaud viene liberato, recupera il tesoro e, ricchissimo, torna a Parigi per vendicarsi; al termine di una spirale di delitti, sarà ucciso lui stesso. Quest’intreccio elementare, che Dumas definirà nel 1857 “perla informe, perla grezza, perla senza alcun valore”, innesca l’elaborazione di un intreccio più complesso, inserendo il tema di una clamorosa ingiustizia e della sua vendetta in un quadro storico decisamente contemporaneo, la Francia della monarchia costituzionale di Louis-Philippe con il suo retroterra tra Impero e Restaurazione, e soprattutto facendo confluire sul protagonista, di condizione sociale umile come François Picaud, le connotazioni dell’eroe romantico in conflitto con il potere…
Nel laboratorio progettuale del nuovo romanzo confluiscono inoltre altre narrazioni e ascendenze culturali: da un punto di vista strettamente narrativo, il romanzo storico di Walter Scott, su un piano più filosofico la cultura illuminista con i suoi riferimenti di confronto nella cultura greco-romana, nella tradizione biblica e nel grande impianto gnoseologico della Divina Commedia di Dante. L’abbondare di citazioni colte nel Conte di Montecristo porterà il segno di una costante tendenza all’apertura, alla polifonia, all’ulteriore complessità del congegno narrativo… Dumas intende operare, nel suo nuovo romanzo, un doppio simultaneo movimento: in verticale, nelle dinamiche interne alla società francese del suo tempo, e in orizzontale, nell’apertura senza limiti a ogni suggestione culturale e gnoseologica.
Lo strumento principale per avvincere chi legge in un percorso complesso e a più dimensioni gli viene dal teatro; ha già sperimentato con successo la contaminazione tra linguaggio teatrale e linguaggio narrativo, ma è nel nuovo romanzo che, sfruttando ancora più consapevolmente i vincoli del feuilleton, imprimerà alla narrazione il ritmo, l’assertività, i colpi di scena, gli scarti tra piani di realtà, dell’azione teatrale. Si potrà giungere a parlare di melodramma per Il conte di Montecristo.
[…] L’evasione di Dantès dal castello d’If è un grande evento nazionale, l’affermazione della sua rivolta contro una Storia infame e una società fondata sul crimine suscita speranze di rivalsa in una Francia inquieta, alla vigilia della rottura rivoluzionaria del 1848. Dantès è un uomo contro, la sua vendetta assume facilmente connotazioni politiche attuali; l’azione si svolge tra il 1814 e il 1838, dal tentativo finale di Napoleone alla Restaurazione, all’involuzione della Rivoluzione del 1830, ripercorrendo le tensioni e i conflitti di una Storia sempre più degradata a questione privata di pochi profittatori: la società è una squallida commedia, i suoi figuranti di potere recitano ruoli miserabili o inconsapevolmente convenzionali.
Eppure il meccanismo è fragile e può essere disgregato dall’interno, con perfida sapienza, con tenace autonomia, ritorcendogli contro i suoi stessi ingranaggi. Clandestino a questa società, forte del suo lucido disegno, il prigioniero politico Edmond Dantès gioca tutti i ruoli possibili, assume maschere diverse, interviene “in situazione”, imprime un corso diverso alla realtà data. Non si limita a opporre la propria purezza di eroe romantico al fango della Storia, ma ne colpisce segretamente e con puntuale efficacia le dinamiche di potere; a quel potere sociale oppone il proprio potere individuale, disperatamente consapevole, dolente e terribile, fino all’estrema constatazione della sostanziale vanità di un’opera immensa e onnipotente di giustizia e distruzione.
Al Dantès che si sarà pienamente vendicato rimarrà l’amara constatazione dei limiti di una condizione umana prigioniera; la vera liberazione è sempre oltre, altrove [… ]
Nel Conte di Montecristo la scrittura è straordinariamente coerente con la poetica di Dumas: il mito del confronto attivo e tenace con la realtà data, con un paesaggio di maschere, con le vicende individuali, vive nel turbinio dei linguaggi, nell’esuberante necessità di moltiplicare il gioco dei punti di vista, dei punti di fuga, dei riferimenti culturali. Il romanzo diventa un luogo d’incontro di voci, asserzioni, riflessioni, di realtà e immaginario, in cui si compone, con chi legge e in chi legge, un inesauribile caleidoscopio polifonico, uno spettacolo multidimensionale che non perde mai la centralità del suo progetto interno […]

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