3.4.13

Angela Davis. La ricerca dell’invisibile (di Daniele Giglioli)

La più celebre immagine di Angela Davis (1970 c.a)
La riedizione dell’autobiografia di Angela Davis, qualche anno fa, ha dato occasione all’articolo che segue, più di una recensione, il confronto di un intellettuale più giovane con un passato – quello del Sessantotto in senso lato, per intenderci – ridotto a stereotipi, negativi o positivi non importa. Una bella pagina di critica. (S.L.L.)
Angela Davis nel 1998 in una foto di Chris Hayd (particolare)
Per tutta la lettura di questa bellissima Autobiografia di una rivoluzionaria di Angela Davis (minimum fax, trad. di Elena Brambilla, con un saggio di Luca Briasco) ho dovuto lottare con la sensazione di star ascoltando il racconto di una fotografia, e non di una persona in carne e ossa. Di una fotografia, per di più, privata della sua perturbante qualità di rappresentare l'apparizione di una singolarità in un determinato istante di tempo irreparabilmente trascorso, e rivestita invece del brillio ingannevole della serialità, un po' come se le tinte acriliche della Marilyn di Warhol avessero finito per stingere su A qualcuno piace caldo o su Gli spostati. Sensazione molesta, petulante, irriverente e ingenerosa, perché tutto nella sua vita è stata Angela Davis fuorché una stella del cinema, un oggetto di desiderio, una rotella nel sistema dello Showbiz - era invece, ed è tuttora, una coraggiosa militante e un'intellettuale di vaglia, una leader del movimento nero degli anni settanta e una scrittrice di gran classe, come prova del resto questa sua Autobiografia. Perché allora il sentore che sia, se non giusta, quanto almeno feconda, capace se assecondata di condurci al cospetto di una verità non banale?
Certo non si può negare che Angela Davis sia stata trasformata in un'icona già molto giovane, al tempo della sua persecuzione giudiziaria poi risortasi nel 1972 in una clamorosa assoluzione. John Lennon e i Rolling Stones le hanno dedicato una canzone, Jacques Prévert una poesia non bellissima, il suo profilo stilizzato ha fatto capolino sulle strisce dei Peanuts e di Doonesbury, la sua pettinatura afro è diventata per antonomasia «alla Angela Davis» (oggi invece porta i dreadlocks da rasta), ed esiste perfino una griffe di abbigliamento che si chiama come lei. Aggiungiamoci la distanza temporale e geografica. Per gli italiani della mia generazione Angela Davis è stata a lungo una della tante incomprensibili allusioni di Francesco De Gregori («una foto di Angela Davis/ muore lentamente sul muro/ e a me di lei/ non me n'è fregato niente mai», dalla deprimente Informazioni di Vincent, del 1974, lo stesso anno di pubblicazione dell’Autobiografia), la società dello spettacolo non perdona, e non si può biasimare la quarta di copertina se ce la presenta come «un classico assoluto della controcultura».
Di questa assunzione al sempreuguale della celebrità mediatica la Davis non ha alcuna responsabilità (e forse nemmeno piena consapevolezza), e la accoglie anzi con un misto di ritegno e di sprezzatura da classica intellettuale borghese. Perché, checché se ne dica e checché lei stessa ne pensi, la sua storia non è affatto «tipica», e non rappresenta in alcun modo la parabola comune dei leader neri della sua generazione. Non proviene dal ghetto ma da una famiglia colta anche se non ricca, ha al suo attivo buoni studi, un anno a Parigi, una laurea su Robbe-Grillet, due anni di dottorato in filosofia a Francoforte (con una tesi chiesta ad Adorno), un assistentato con Herbert Marcuse e un incarico universitario che le verrà revocato quando inizierà a emergere come una figura riconoscibile del movimento. A differenza dei suoi fratelli venuti dalla strada, non padroneggia istintivamente il linguaggio della cultura di massa, la necessità di scegliersi un logo, un'immagine, un brand - la facilità agli slogan di Stokeley Carmichael, la parlantina di Malcom X (o di Muhammed Alì), la perizia da pubblicitario di Huey P. Newton, leader carismatico del Black Panther Party, che si fa fotografare seduto come un capotribù con in grembo un fucile, uno scudo e una lancia Masai, e disegna minuziosamente il look dei suoi militanti, calzoni di pelle nera, occhiali neri e basco nero. Parla e scrive forbito, non si esprime con l'efficacissimo rotten english dei suoi compagni, la suaautodifesa al processo ha il respiro di una grande orazione. Sintomatica è poi la sua diversa e meno tortuosa Bildung di rivoluzionaria: non dalla microcriminalità al nazionalismo nero al socialismo, ma il socialismo da subito, senza alcuna condiscendenza per il machismo che permeava il linguaggio e la mentalità dei ghetti (le donne come «pollastrelle» o al massimo come compagne senza diritto di parola e di lotta). Sintomatica la sua adesione all'infelice Partito comunista americano (da cui uscirà solo nel 1991, dopo che il Partito avrà dato il suo appoggio al fallito golpe contro Gorbaciov). Sintomatico, forse, è anche il fatto che si sia salvata, e non sia finita uccisa come buona parte dei militanti più in vista nella sempiterna guerra a bassa intensità che gli Stati Uniti conducono contro i loro poveri. Per questo, quando afferma che a accettato di scrivere la sua storia malincuore, perché in realtà non solo la sua, e sarebbe bastato un minimo scarto del perché al suo posto si trovasse un altro fratello, dice una mezza verità fattuale, e insieme la piena verità del desiderio. C'è in lei qualcosa che la apparenta all'«andata al popolo» degli intellettuali ottocenteschi, e non a caso si è innamorata di George Jackson, il più noto dei «fratelli di Soledad», per la cui libertà si sta battendo e con cui ha un meraviglioso carteggio fatto di lento avvicinamento e di reciproca acculturazione - un carteggio che sarebbe stato bello vedere pubblicato, almeno in parte, in appendice. Non perché, trattandosi di una donna, sia necessario ricorrere necessariamente a una qualche forma di subplot amoroso (come il procuratore distrettuale che voleva provare con l'«infatuazione» le sue false accuse di rapimento, omicidio e cospirazione contro lo stato). Ma perché George Jackson, un altro di quegli straordinari esempi di trasformazione da balordo di strada a figura carismatica di cui è ricco il movimento nero di quegli anni, le appare anche innegabilmente come il simbolo della comunità e della storia a cui vuole, a cui ha scelto di appartenere: «George appariva ancora più vigoroso di quanto avessi immaginato. Avevo creduto che portasse addosso visibilmente le cicatrici di quegli ultimi dieci anni. Ma in lui non c'era ombra di rassegnazione, la schiavitù in cui aveva trascorso tutta la vita adulta non gli aveva lasciato il minimo marchio. Avanzava eretto, con una sicurezza che non avevo mai visto in nessuno. Le spalle erano quadrate e muscolose, le braccia potenti avevano la forza di un'antica scultura, il volto rivelava la profonda consapevolezza della nostra condizione collettiva e il rifiuto di lasciarsi sopraffare dall'oppressore. Quasi non credevo alla spontanea bellezza del suo sorriso».
Un ritratto da realismo socialista? Un bel «tipo» di eroe popolare in versione black? Sì, ma anche uno scambio vero in cui entrambi capiscono tante cose, lei il ghetto e lui le donne: non fuori degli stereotipi ma attraverso gli stereotipi, in un riuso che non è quello mistificatorio e mortuario delle icone, ma il tentativo di uscire dall'identità irrelata, di aprirsi al cambiamento, alla trasformazione, alla rivoluzione - che per George, freddato da una guardia carceraria, non poté procedere a lungo. Se l'Autobiografia si chiude con l'assoluzione e la speranza, la storia della rivoluzione nera è finita male. Che sia questo a ricacciare Angela Davis nella funebre impassibilità dell'icona? Non è tutto il nostro presente, il nostro lungo eterno presente, l'istantanea raggelata di una rivoluzione mancata, di una mancata inscrizione della soggettività nella luce di un «luogo comune» che non sia solo quello degli stereotipi spettacolari? Eppure da queste pagine e da quelle foto i volli della Davis, di George Jackson e di lutti gli altri continuano a domandarci, come la pescivendola di New Haven che aveva folgorato Benjamin, di «cercare il luogo invisibile in cui, nell'essere in un certo modo di quell'attimo lontano, si annida ancora oggi il futuro».

“alias – il manifesto”, 21 aprile 2007

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