Non
male il pezzo di Verdone, nella rubrica Il fan de
“La lettura – Corriere della sera” di qualche mese fa, dedicato
a Bruce Springsteen. È bravo a rievocare atmosfere e mi pare che di
musica ci capisca. Ne riprendo un ampio stralcio. (S.L.L.)
A
metà degli anni Settanta, in Italia e non solo, c’era un unico
modo per tenersi aggiornati sull’evoluzione del rock e la
conseguente nascita di nuovi gruppi e cantautori: le radio private.
[...] Io mi ero affezionato alla meno conosciuta, Rr 96, poco
commerciale, senza alcun tono brillante nei conduttori, ma che aveva
il pregio di centrare in pieno le vere novità del momento, quelle di
sicura qualità. Una
mattina, verso le 10 di un torrido luglio del 1975, Rr 96 annunciò
il prossimo brano: Born to Run
di un certo Brace Springsteen. Mi stavo facendo la barba ma dopo un
minuto, con mezzo viso ancora pieno di schiuma, mi sedetti sul bordo
della vasca con il rasoio in mano. Stavo ascoltando qualcosa di
eccezionale per grinta, sound e voce potente.
C’era qualcosa di
nuovo in quell’artista: l’anima. Un’anima che non riuscivo più
a cogliere in Bob Dylan, pur ritenendolo il più grande cantautore
della storia della musica americana. Ma dovetti attendere cinque anni
per avere le idee più chiare su Springsteen. L’uscita del doppio
The River mi fece
apparire questo cantautore, con un piede nel rock e l’altro nel
folk, assolutamente completo, dotato di una personalità fortissima
nel suo essere assolutamente normale. Niente droghe, nessun
abbigliamento da classica rockstar che vuol stupire, nessuna
acconciatura ricercata. Solo il volto sano, normale, di un uomo che
avrebbe potuto fare l’operaio, l’autista di un tir o un
conducente di un taxi. La grande forza di Springsteen era quella di
rappresentare, nella sua immagine proletaria, il lato rabbioso o
dolente in un’America in crisi di valori, in cerca di un riscatto.
A
differenza di Dylan, introverso, sublime poeta della sua anima
inquieta e, in qualche brano, rassegnato allo stato delle cose,
Springsteen vuole scuotere. Rovescia rabbia ma cerca costante-mente
il riscatto. Incita al riscatto. Born in the Usa
è un trascinante «comizio sonoro» in cui non c’è posto per la
depressione. In Nebraska
del 1982 c’era solitudine e dolore ma mai senso di sconfitta.
Quest’album, acustico, registrato nella sua casa, è forse la sua
opera che preferisco. L’ho sempre ascoltato come la colonna sonora
della solitudine di una certa America. Un’America in bianco e nero,
abbandonata, umiliata, immersa nella malinconia del vento di Atlantic
City. Quando incontrai Springsteen al Festival di Roma qualche anno
fa, ebbi la fortuna di scambiarci qualche parola. Ricordo che gli
dissi: «Ti ammiro. E ti ho amato ancora di più con Nebraska.
Lui mi diede una grossa pacca sulla spalla rispondendomi: «I agree
with you». Il Tempo passa e tra non molto saranno quasi quaranta gli
anni di attività di questo grande cantautore che ci ha colpito con
album dove il tema della difesa dei diritti, della denuncia
dell’ipocrisia politica, dell’abbandono degli ultimi, sono sempre
in prima linea. Ma la sua immortalità nel panorama musicale, a mio
avviso, risiede nel non essersi prostituito mai a mode e nell’aver
sposato sempre ima profonda autenticità. Senza mai scendere a
compromessi commerciali. Lunga vita al Boss, uomo semplice, pieno di
stupore e di profonda umanità. Di concerti rock importanti ne ho
visti un’enormità, ma ancora oggi ricordo il suo live
a Roma negli anni Ottanta come il più potente, fisico, muscolare e
travolgente di tutti. Tre ore ininterrotte a dimostrare non solo gran
rispetto per il pubblico, dando tutto se stesso, ma soprattutto la
voglia di divertirsi e trascinare tutti nel suo mondo dove non c’è
spazio per la resa e la sconfitta. [...]
La lettura - Corriere della Sera, 22 maggio 2016
La lettura - Corriere della Sera, 22 maggio 2016
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