27.9.16

Bruce Springsteen (Carlo Verdone)

Non male il pezzo di Verdone, nella rubrica Il fan de “La lettura – Corriere della sera” di qualche mese fa, dedicato a Bruce Springsteen. È bravo a rievocare atmosfere e mi pare che di musica ci capisca. Ne riprendo un ampio stralcio. (S.L.L.)

A metà degli anni Settanta, in Italia e non solo, c’era un unico modo per tenersi aggiornati sull’evoluzione del rock e la conseguente nascita di nuovi gruppi e cantautori: le radio private. [...] Io mi ero affezionato alla meno conosciuta, Rr 96, poco commerciale, senza alcun tono brillante nei conduttori, ma che aveva il pregio di centrare in pieno le vere novità del momento, quelle di sicura qualità. Una mattina, verso le 10 di un torrido luglio del 1975, Rr 96 annunciò il prossimo brano: Born to Run di un certo Brace Springsteen. Mi stavo facendo la barba ma dopo un minuto, con mezzo viso ancora pieno di schiuma, mi sedetti sul bordo della vasca con il rasoio in mano. Stavo ascoltando qualcosa di eccezionale per grinta, sound e voce potente.
C’era qualcosa di nuovo in quell’artista: l’anima. Un’anima che non riuscivo più a cogliere in Bob Dylan, pur ritenendolo il più grande cantautore della storia della musica americana. Ma dovetti attendere cinque anni per avere le idee più chiare su Springsteen. L’uscita del doppio The River mi fece apparire questo cantautore, con un piede nel rock e l’altro nel folk, assolutamente completo, dotato di una personalità fortissima nel suo essere assolutamente normale. Niente droghe, nessun abbigliamento da classica rockstar che vuol stupire, nessuna acconciatura ricercata. Solo il volto sano, normale, di un uomo che avrebbe potuto fare l’operaio, l’autista di un tir o un conducente di un taxi. La grande forza di Springsteen era quella di rappresentare, nella sua immagine proletaria, il lato rabbioso o dolente in un’America in crisi di valori, in cerca di un riscatto. 
A differenza di Dylan, introverso, sublime poeta della sua anima inquieta e, in qualche brano, rassegnato allo stato delle cose, Springsteen vuole scuotere. Rovescia rabbia ma cerca costante-mente il riscatto. Incita al riscatto. Born in the Usa è un trascinante «comizio sonoro» in cui non c’è posto per la depressione. In Nebraska del 1982 c’era solitudine e dolore ma mai senso di sconfitta. Quest’album, acustico, registrato nella sua casa, è forse la sua opera che preferisco. L’ho sempre ascoltato come la colonna sonora della solitudine di una certa America. Un’America in bianco e nero, abbandonata, umiliata, immersa nella malinconia del vento di Atlantic City. Quando incontrai Springsteen al Festival di Roma qualche anno fa, ebbi la fortuna di scambiarci qualche parola. Ricordo che gli dissi: «Ti ammiro. E ti ho amato ancora di più con Nebraska. Lui mi diede una grossa pacca sulla spalla rispondendomi: «I agree with you». Il Tempo passa e tra non molto saranno quasi quaranta gli anni di attività di questo grande cantautore che ci ha colpito con album dove il tema della difesa dei diritti, della denuncia dell’ipocrisia politica, dell’abbandono degli ultimi, sono sempre in prima linea. Ma la sua immortalità nel panorama musicale, a mio avviso, risiede nel non essersi prostituito mai a mode e nell’aver sposato sempre ima profonda autenticità. Senza mai scendere a compromessi commerciali. Lunga vita al Boss, uomo semplice, pieno di stupore e di profonda umanità. Di concerti rock importanti ne ho visti un’enormità, ma ancora oggi ricordo il suo live a Roma negli anni Ottanta come il più potente, fisico, muscolare e travolgente di tutti. Tre ore ininterrotte a dimostrare non solo gran rispetto per il pubblico, dando tutto se stesso, ma soprattutto la voglia di divertirsi e trascinare tutti nel suo mondo dove non c’è spazio per la resa e la sconfitta. [...]

La lettura - Corriere della Sera, 22 maggio 2016

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