Una immagine da "A Hard Day's Night" |
Avete voglia di una corsa
a perdifiato nella Beatlesmania? Cinquanta anni dopo Paul, John,
George e Ringo tornano sul grande schermo con A Hard Day’s
Night, il loro primo film tutto in biancoenero, datato 1964,
un’esplosiva combinazione di pop music, ironia britannica,
esuberanza anarchica e slang giovanile, tutto brillantemente
restaurato e rimasterizzato in digitale (in lingua originale con
sottotitoli italiani). Girato nelle otto settimane d’intervallo tra
il tour americano e quello europeo, il loro primo film, A Hard
Day’s Night, espressione buffa inventata da Ringo per intendere
una sessione di registrazione notturna dopo una faticosa serie di
prove (da noi venne ribattezzato Tutti per uno ma il titolo
migliore fu quello brasiliano Os Reis do le-le-le) testimonia
il periodo in cui i Fab Four diventano i singolari e irriverenti
idoli della loro generazione, il momento magico della rivoluzione
musicale dei sixties, il sapore anticonformista degli
sberleffi alla grigia e repressiva società inglese, l’ottimismo di
saper affrontare tutto con un sorriso contagioso.
Si comincia proprio con i
quattro musicisti inseguiti da un’orda di fan urlanti e scatenati.
Un’isteria collettiva che li accompagna in ogni dove, nel viaggio
in treno da Liverpool a Londra per andare a registrare uno spettacolo
televisivo e principalmente nei tanti esilaranti fuori programma in
un teatro, in una conferenza stampa e in una stazione di polizia. I
Beatles che fanno i Beatles, un musical jukebox o un finto
documentario, una giornata di ordinaria follia nella vita del
quartetto, posh e zazzeruto, tra gag surreali e spassosi
contrattempi, stratagemmi narrativi per mostrare (ed eseguire) una
dozzina di canzoni, diventate hit planetari. Come l’indimenticabile
e potente accordo di Harrison che marchia la canzone del titolo,
scritta da John in una sera e registrata il giorno dopo, e tutto il
repertorio melodico-sentimentale da And I love her a If I
Fell a I’m Happy Just to Dance with You, con la formazione
schierata intorno alla batteria di Ringo, il piccoletto col naso a
tromba, che scarica i complessi d’inferiorità picchiando sul
tamburo, perseguitato da un vecchietto, accreditato come il nonno di
Paul, imbroglione e linguacciuto (interpretato da Wilfrid Brambell,
un attore famoso al tempo, proveniente dalla sitcom Steptoe and
Son), assai perbene e molto piantagrane, motore dei tanti
funambolici episodi della pellicola, dove compaiono anche due
personaggi, Norm il manager (Norman Rossington) e Shake il
tuttofare(John Junkin), ispirati dai veri assistenti personali della
band di Liverpool.
«Prima di cominciare
sapevamo che sarebbe stato improbabile che potessero a)imparare,
b)ricordare e c)recitare con precisione una parte lunga. La struttura
della sceneggiatura doveva quindi essere composta da una serie di
battute – ricorda Richard Lester, il regista che si è affidato
molto all’improvvisazione, conservando uno stile visivo fresco e
spontaneo – questo mi ha permesso in molte delle scene di puntare
una telecamera, dire loro una frase e fargliela ripetere».
Ecco così il dipanarsi
di una comica con inseguimenti, sparizioni, mimica facciale,
ballerine, angolazioni insolite, dai balli shake alle lunghe
capigliature ondeggianti, dalle camicie con colli ampi come vele ai
passatempi di una società ancora bacchettona uno dietro l’altro,
lo shove ha’ penny , un classico gioco da pub, dove si lanciano
delle monete su una tavoletta, le freccette, giocare a carte sul
bidone di latta.
Oppure combinare una
serie di pasticci come rompere boccali di birra, far cadere una
signora in una buca dopo avergli messo un cappotto a terra per farla
passare tra vaste pozzanghere, gesto romantico tipicamente inglese
(chi ha dimenticato il mantello tagliato di San Martino?) o far
apparire da una botola il nonnetto durante un’opera lirica e su
tutti, il duetto tra George e Shake che non ha mai usato un rasoio a
mano, sul farsi la barba mettendo la schiuma sullo specchio e raderla
sulla superficie luccicante, in un gesto happening alla Man Ray.
Lester fa venir fuori
l’energia trasmessa dal gruppo, corse sui prati e puntate al
casinò, flirt con le truccatrici televisive e letture approfondite
dei giornali, con una sfrenata vitalità, con la spregiudicata
libertà creativa del Free Cinema britannico sperimentando soluzioni
formali inaspettate e regalando al cinema musicale un nuovo gioiello
rock. A Hard Day’s Night è ancora oggi, naif e ironico, uno
dei più bei film musicali della storia del cinema e certamente una
pietra miliare della generazione pop con la fotografia di Gilbert
Taylor (che aveva già lavorato con Stanley Kubrick e che lavorerà
quindi con Roman Polanski, Alfred Hitchcock e George Lucas), la
sequenza dei brani ha spianato la strada a quello che sarebbe
diventato il video musicale.
Il film venne presentato
il 6 luglio 1964, al Pavillon Theatre di Londra, alla presenza della
principessa Margaret e di Lord Snowden e fu subito il manifesto della
rivoluzione culturale in arrivo, della swinging London
mattacchiona e canterina, dell’ondata antiautoritaria
internazionale. Accompagnato dall’omonimo, incredibile album dei
Fab Four che raggiunse all’epoca vendite da capogiro, il film fu
nominato agli Oscar, ai Grammy, ai Batfa .
“il manifesto”, 5
giugno 2014
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