Quando si spengono delle
luci se ne accendono delle altre, per certi versi anche più
luminose. Pochi giorni dopo la chiusura delle Olimpiadi, a Rio de
Janeiro andrà in scena il grande show delle Paralimpiadi: 4.300
campioni provenienti da 176 Paesi si sfideranno in 23 discipline, con
le due novità della canoa e del triathlon.
Uno spettacolo
d’eccezione per l’Italia. Non solo perché le speranze di
medaglie azzurre sono molte, con 94 atleti (38 donne e 56 uomini)
impegnati nelle competizioni, dal più celebre Alex Zanardi – ex
pilota che dopo la perdita di entrambi gli arti si è reinventato
ciclista paralimpico – alla portabandiera Martina Caironi, 26enne
bergamasca campionessa mondiale ed europea nei 100 metri della
categoria T42 (quella che raggruppa gli atleti con la sua stessa
disabilità). Ma perché i Giochi pensati per atleti con disabilità
fisiche sono frutto dell’intuizione di un italiano visionario ma
poco noto, il neuropsichiatra Antonio Maglio, all’epoca direttore
del Centro paraplegici dell’Inail di Villa Marina a Ostia. Fu lui,
negli anni ’50, ad avviare una vera e propria rivoluzione sportiva,
scientifica e culturale nel modo di curare i disabili.
«All’inizio il Centro
era destinato solo agli infortunati sul lavoro ma piano piano grazie
alla sua intuizione si allargò a tutti i disabili e paraplegici»,
racconta a pagina99 il professor Vincenzo Castellano, prima collega e
poi successore di Maglio alla guida del Centro Inail.
Nei primi anni ’50 la
disabilità in Italia era vista con pregiudizio. Maglio, così come
Franco Basaglia per le malattie mentali, ha rivoluzionato le
metodologie terapeutiche e la concezione stessa di disabilità. «È
certamente lui il padre italiano della sport terapia», spiega a
pagina99 Giampiero Merati, medico sportivo e docente all’Università
degli Studi di Milano. «Sport e terapia sembrano due parole
antitetiche. La sua intuizione è stata quella di metterle insieme e
realizzare un intervento precoce in grado di spezzare il circolo
vizioso che quasi sempre dalla disabilità porta alla sedentarietà,
all’obesità e alla depressione. La filosofia di fondo è che lo
sport sia un grande farmaco».
Antonio Maglio |
Maglio si ispirò al
lavoro del neurologo inglese Ludvig Guttmann, che a Stoke Mandeville
aveva cominciato nell’immediato dopoguerra a inserire lo sport
nella terapia riabilitativa dei reduci, organizzando ogni anno
competizioni sportive internazionali per veterani. È seguendo questo
modello che nel 1954 a Ostia si svolge un primo torneo di scherma per
disabili. E nel 1960, in corrispondenza delle Olimpiadi di Roma,
Maglio riesce addirittura a organizzare la prima edizione delle
Paralimpiadi, riconosciuta ufficialmente come tale solo nel 1984 dal
Comitato Olimpico.
«Il grande merito di
Maglio è quello di essere riuscito a far capire l’importanza
dell’attività sportiva per tutti i pazienti», dice Castellano.
«Li trattava con grande professionalità ma anche con grinta perché
voleva che tutti facessero attività fisica. È stato un lavoro
eccezionale non solo dal punto di vista medico ma anche dal punto di
vista sociale e culturale».
Gli effetti positivi
della sport terapia sono sia fisici sia psicologici, spiega Merati.
«Lo sport è il grimaldello attraverso il quale dare nuove
motivazioni necessarie affinché il paziente non entri in una spirale
negativa che colpisce il cuore, i muscoli ma anche la mente. Lo sport
allena tutte queste cose insieme». E sotto questo aspetto,
l’inserimento della componente agonistica è un passo ulteriore.
«La competizione aumenta le motivazioni e dunque l’impegno del
paziente a stare in forma», spiega Merati. «Con la competizione
agonistica il disabile si emancipa completamente perché non solo
recupera la propria funzionalità mentale e fisica ma diventa anche
in grado di metterla in campo per competere sportivamente con altre
persone che vivono il suo stesso tipo di condizione». Lo sport
diventa un progetto di vita che rende più efficace il processo di
riabilitazione. Per questo, come ha raccontato in alcune interviste
la moglie Stella, Maglio insisteva molto coi pazienti e «li trattava
senza un briciolo di pietismo. Non era ammissibile per lui che
qualcuno si rifiutasse di fare gli esercizi».
E così, persone che dopo
gravi incidenti pensano di non potersi più muovere, si ritrovano in
una palestra, in una pista di atletica o in un campo da basket. «Ma
è come nello sport per le persone senza disabilità», avverte
Merati. «Non tutti poi arrivano alle Paralimpiadi. Per farcela ci
vogliono un lavoro e un allenamento eccezionali che in pochi riescono
a portare avanti. L’importante è che tutti facciano attività
fisica ma non si può pensare che poi tutti lo faranno in maniera
agonistica o diventeranno campioni paralimpici».
La cosa fondamentale, «la
più difficile», prosegue Merati, «è quella di centrare la
finestra terapeutica corretta, cioè prescrivere la dose corretta di
attività sportiva al paziente. Per questo ciò deve avvenire
soprattutto all’inizio in un ambiente protetto e con figure
professionali». Al termine del processo riabilitativo entrano in
gioco le motivazioni individuali e le società presenti sul
territorio. «È fondamentale creare un network, in alcuni casi già
esistente, tra medico di base e le associazioni sportive per
incentivare e facilitare la continuazione dell’attività fisica»,
dice Merati.
Nel frattempo
l’intuizione di Maglio è già realtà. Questa estate a Rio quando
si spegneranno delle luci se ne accenderanno delle altre, per certi
versi anche più luminose.
Pagina 99, 29 luglio 2016
Nessun commento:
Posta un commento