Il regista parla dal
fondo del suo posto al ristorante,
vicino alla cassa.
Gli piace soprattutto far mangiare gli amici e guardarli.
Ha qualche rimpianto
culinario, qualche idea,
ma è la sua reticenza a dire di più.
A tavola con Fellini.
Dalla Cesarina di via Sicilia naturalmente: il suo ristorante
prediletto, da sempre.
Si conoscevano bene, lui
e la Cesarina, fin dai tempi di Bologna, quando Federico era uno
studentello magro, squattrinato, vitellone, con gli occhi grandi e
curiosi. Lei, gigantesca, brontolona, generosa, più o meno identica
a quella di ora, lo stesso incedere solenne e fiero che segue passo
passo il carrello dei bolliti, gli orecchini preziosi e zingareschi
che le ballonzolano sulle gote, il forte accento emiliano, la stessa
aria di desolata repulsione di fronte a qualsiasi tentativo di dieta
o comunque di scarsa adesione alla sua cucina, lei a quello
studentello, spesso, faceva maternamente credito.
Quando, ai tempi della
Dolce vita, la Cesarina si trasferì a Roma, aprendo il nuovo
ristorante a due passi da via Veneto, Federico, ormai celebre
regista, di lei non si era affatto dimenticato. Tanto è vero che fu
proprio nel ristorante di via Sicilia che La dolce vita venne
annunciato alla stampa, coi paparazzi scalmanati che puntavano i
flash contro una Cesarina raggiante ritratta a braccetto con il
Maestro, o assieme alla nordica Anitona, dal décolleté pannoso e la
pelle d’alabastro.
Il ristorante fu
lanciato, divenne alla moda: attori, politici, gente di cinema e di
teatro, ricchi turisti americani, in molti cominciarono a
frequentarlo. La padrona era simpatica, facilmente s’incontrava
Fellini in compagnia della Masina o di qualche produttore, il luogo
era familiare e accogliente, col camino sempre acceso d’inverno; e
poi i passatelli in brodo, le squisite salse dei bolliti, la lasagna
speciale, delicata e cremosa, la zuppa inglese che pareva fatta in
casa...
A tutt’oggi, il
ristorante Cesarina non è affatto cambiato: il nome è lo stesso, si
mangia sempre bene, l’arredo è immutato, i politici ci vanno
ancora, Fellini anche. Ma lei, la Cesarina, l’ispiratrice, la
fondatrice, la reginona di via Sicilia, lei non c’è più, da
quando, l’anno scorso, ha deciso di vendere ad altri il suo
ristorante, nome compreso. E così, la grande signora si è messa a
riposo; nei vecchi luoghi torna solo di tanto in tanto, per
nostalgia, e tutti quanti le fanno festa, clienti e camerieri.
Fellini sente la sua
mancanza, e se ne lamenta. Pure non sa rinunciare al suo ristorante,
allo spazio caldo e comodo, al mangiare genuino che gli rammenta la
sua Romagna. Per questo continua a esserne un cliente assiduo; e i
camerieri, premurosi, conoscono bene ogni suo piccolo vezzo: il
tavolo tondo subito sotto la cassa (è quello che preferisce)
apparecchiato per lui, i pezzettini di parmigiano fresco da
stuzzicare durante le attese, tutto il carrello dei dolci da
contemplare a fine pasto (ma poi non assaggerà quasi nulla:
l’importante è scuriosare).
Un’intervista sul cibo
a Fellini non poteva dunque che avvenire dalla Cesarina. Cosa mangia
il Maestro? Poco, e con una certa fretta: una tazza di zuppa di
verdura, un’omelette («ma mi raccomando, che sia bella
bavosa dentro»), molta frutta alla fine, con una preferenza spiccata
per l’uva baresana. «Il fatto è che io mangio come un frate,
seguo un menù semplice, ripetitivo. No, non posso darle molta
soddisfazione su quest’argomento. E poi i condizionamenti delle
diete... Da ragazzo ero magrissimo, e ho nostalgia di quel periodo.
Col passare degli anni mi sono appesantito, e sono arrivati gli
inevitabili confronti con i medici, con quelle loro dannate bilance
che segnano sempre due o tre chili in più del peso reale...».
D. Fellini,
dunque, mangia poco. Ma perché sempre così frettolosamente?
Fellini. Perché
sono un pasticcione. In realtà mi siedo a tavola con piacere più
per l’aspetto conviviale della faccenda che per il cibo in sé. Mi
piace l’incontro con un amico, il momento di confidenza,
l’avvenimento festoso, la chiacchiera rilassata: la tavola,
insomma, come pausa, stacco dal lavoro. Ma in effetti, non credo di
gustare granché quello che mangio. Sono impaziente, sono qui e
vorrei già essere altrove... Fa parte, credo, di una mia forma
temperamentale, che ormai si è completamente sclerotizzata: una
forma di fretta, di fuga continua dalle cose; un processo
irreversibile di speculazione fantasiosa o fantastica sulla realtà,
per cui tutto ciò che mi pare mi trattenga in una dimensione
sensoriale subito mi appesantisce, mi sembra da sfuggire, da
evitare...
D.
Però le piace vedere mangiar gli altri...
Fellini. Già. Ho
piacere a vedere mangiare gli amici, ho la mania di riempir loro il
piatto con tanti piccoli assaggi di tutte quelle cose che non voglio
o non posso mangiare io... Direi che, in generale,
mi piace molto veder
mangiare gli akri.
D. E le donne,
in particolare?
Fellini. Sì,
certo, una bella donna che non ha complessi di linea, e che mangia
con appetito, mi ha sempre fatto molta simpatia... Questo nutrirsi
gagliardamente mi pare rivelatore di un certo modo positivo di porsi
di fronte alla vita. Una spontaneità, un’autenticità senza
rigori, senza problemi, l’indifferenza agli attacchi autopunitivi
delle diete, tutto questo mi pare un buon segno, mi fa allegria.
D. Allora è
vero che le piacciono le donne grasse.
Fellini. Niente
affatto. Mi piacciono gli attributi femminili doviziosi,
convenientemente sviluppati. Mi piace una donna che rispetti, nel
fisico, la tradizione delle grandi Veneri: Rubens, Tiziano. La donna
morbida insomma, opulenta, quella che ha il vantaggio di restituire
un senso di protezione antica, di nutrimento, di saggezza. Quel tipo
di donna ha qualcosa in più: una sua verità non corretta, non
trattenuta; un’assenza da privazioni. D’altra parte, sono anche
convinto che questa mia predilezione sia una tendenza molto naturale
in tutti gli uomini del mondo: la grassezza non c’entra. L’aspetto
adiposo non mi piace, non mi interessa.
D. Eppure lei
ne fa un uso continuo ed abbondante in tutti i suoi film...
Fellini. Che
significa? È come accusare uno scrittore di adoperare spesso un
certo aggettivo! Che invece è solo, semplicemente funzionale a un
fatto espressivo... I miei gusti personali non c’entrano.
D. Quali sono i
suoi piatti preferiti?
Fellini. Non so,
mi faccia pensare... I sapori, i gusti cambiano, nelle diverse
stagioni della vita. Ricordo che da ragazzino mi piaceva il
caffelatte, insieme al pane abbrustolito con sopra la ricotta. E le
minestre che faceva mia madre, e le polpette, e il polpettone... Uno
nasce coi sapori che sente in famiglia, e crede sia quello il
mangiare migliore del mondo. Ricordo la zuppa inglese che faceva mia
nonna, non l’ho mai più ritrovata così squisita, con la chiara
d’uovo sbattuta e bruciacchiata, e uno spruzzetto di Mistrà...
D. Si è perso
molto, a suo parere, il senso del piacere? L’aspetto sensuale,
godereccio della vita?
Fellini. Mi pare
di sì. Il piacere è qualcosa di estremamente privato, individuale.
Essendo andato perso, per ansia, nevrosi, paura dell’isolamento, il
piacere di stare con se stessi, tutto quello che riguarda il piacere
personale ha perduto d’interesse, di fervore. Ci si è abituati a
uno stordimento collettivo, un’ubriacatura contagiosa, un piacere
consumato insieme. Una tavolata di cento persone sta forse mangiando?
Sta consumando il piacere della tavola? No, si sta solo rumorosamente
ingozzando di cose fatte per il gruppo, e quindi indifferenziate,
approssimative. Poi questa mania delle diete, questo fatto di
considerare il corpo in una forma schematizzata, quest’idealizzazione
teorica di un benessere fisiologico stabilito in numeri e cifre...
Tutto è stato appiattito, generalizzato secondo modelli astratti. Il
che, inevitabilmente, ha portato a un allontanamento dal piacere,
inteso in senso individualistico, aristocratico. Si è perso,
insomma, un rapporto privato con se stessi e con la vita. Per tornare
a consumare un piacere autentico, bisognerebbe innanzi tutto
ritrovare un proprio centro, che dagli altri non possa e non debba
essere invaso. Mentre invece, incapaci di stare da soli, di continuo
ci lasciamo plagiare dal collettivo. E, forse tutto questo è molto
grave.
Nota
Volubile in apparenza ma
fondamentalmente molto abitudinario, Fellini frequenta da anni gli
stessi ristoranti. Al primo posto, naturalmente, c’è la vecchia
Cesarina di via Sicilia, con la sua cucina emiliana ricca e
gustosa. Poi c’è Checco alla Tredicesima, quando Fellini è
in vena di fare una piccola gita in macchina, oppure in estate,
quando si trasferisce a Fregene (e Checco è proprio sulla strada del
mare, al 13° km dell’Aurelia): specialità di pesce, un salone
enorme, dove il fumo si sperde (Fellini odia le sigarette), una
gestione familiare simpatica e affettuosa. A pranzo, quando lavora a
Cinecittà (ma non solo), c’è un’altra mèta prediletta, a pochi
chilometri dagli stabilimenti della via Tuscolana: il Fico Nuovo
di Grottaferrata. Il cibo è rustico e appetitoso, il panorama è
gradevole, in piena campagna, e soprattutto il proprietario, Claudio,
è un omino tutto speciale, buon amico da tempo di Fellini, che lo ha
anche utilizzato come attore (era uno dei due sindacalisti di Prova
d’orchestra). Si dice che Claudio sia perfino un po’ mago e
veggente. Di tanto in tanto, la sera che ha voglia di mangiare della
carne come si deve, il regista sceglie Il Toscano di via
Germanico, celebre per le sue ineguagliabili bistecche e per il suo
Chianti sopraffino. Quando, infine, Fellini è in un periodo di
rigoroso igienismo, diventa un assiduo frequentatore del ristorante
Vegetariano di via Margutta, proprio sotto casa sua:
l’ambiente è giovane, la cucina leggera ma saporita, ilvino è
categoricamente abolito, il proprietario (Claudio anche lui) è uno
spilungone simpatico, che a tempo perso fa il maestro di yoga. (L.B.)
“La Gola”, ottobre
1982
Nessun commento:
Posta un commento