Una vecchia foto della piazza e del monumento alle tredici vittime
C'è un monumento che ricorda il 4 Aprile del 1860, ed è quello
delle tredici vittime che si trova nella piazza ad esse dedicata, a
Palermo. Non è uno di quei monumenti che, secondo Tomasi di
Lampedusa, non rispettiamo perché suffragano fasti di conquistatori;
appartiene a noi siciliani, alla nostra storia. Ma, per la verità,
esso è trascurato come quelli che ricordano le glorie dei
conquistatori della Sicilia. E questo è il segno della verità
secondo la quale si può dire che per noi siciliani il passato,
proprio perché è passato, non esiste: è remoto, appunto.
Eppure il
monumento menzionato rappresenta un momento di grande gloria
palermitana e nazionale nello stesso tempo, perché la sommossa della
Gancia del 4 Aprile, persuase Garibaldi a venire a liberare la
Sicilia e ad innestare le sorti del Mezzogiorno a quelle dell'
Italia, a realizzare l'unità nazionale. Non per nulla il famoso
storico Trevelyan definisce la Sicilia nel 1860 come quell'isola
destinata in quell'anno cruciale ad essere il punto di partenza per
la costruzione dell' Italia unita. E di Francesco Riso che capeggiò
la rivolta esplosa al Convento della Gancia, dice: «L'Italia ha un
grosso debito di riconoscenza nei confronti di Riso, nonostante tutte
le sue pecche, perché a rischio della vita riuscì a dare inizio
alla sommossa che finì con l'indurre Garibaldi a scendere in campo e
a portare in otto mesi alla liberazione della Sicilia e di Napoli ed
alla creazione del Regno d'Italia». Dopo le vittorie contro gli
Austriaci a Solferino ed a San Martino nel 1859, gli occhi degli
Italiani erano volti in direzione della Sicilia, considerata allora
come la terra più rivoluzionaria d'Italia, come lo fu l'Emilia per
i socialisti del secolo scorso.
Penso che questo desterà un po' di meraviglia: però basti pensare
che in quei tempi la Sicilia aveva fatto due rivoluzioni nel 1820 e
nel 1848 (in quest'ultimo anno aveva anticipato tutte le regioni
d'Italia e tutti i paesi del continente: le sommosse erano esplose il
12 gennaio), per capire come fosse forte la tradizione rivoluzionaria
nell'isola. Ne era cosciente Giuseppe Mazzini, il quale, desideroso
di prendersi una rivincita su Cavour che con l'annessione della
Lombardia aveva mostrato agli italiani che si poteva fare l'Italia
senza le avventure mazziniane, scrisse il 2 Marzo del 1860 la famosa
lettera ai siciliani in cui li sollecitava a ribellarsi ai Borboni e
ad assumersi l'iniziativa dell' unita d'Italia, affidandosi non a
Cavour e a Napoleone III, ma alle proprie armi ed alla venuta di
Garibaldi, ormai impegnato in questa avventura storica. E Palermo già
fremeva.
La notte del 26 Giugno alcuni giovani occuparono il Circolo
dei Nobili dirimpetto all'attuale Piazza Bologni e lo illuminarono
per festeggiare le vittorie piemontesi in Lombardia. E scontri con la
polizia borbonica si verificarono in vari punti della città. Palermo
si assumeva, come era avvenuta nel '20 e nel '48, il compito di
costituire l'avanguardia di tutto il fermento che faceva ribollire la
Sicilia.
Una lunga tradizione questa in Sicilia, riconosciuta da
tutti i siciliani, convintissimi che la liberazione di Palermo doveva
essere la condizione della liberazione di tutta l'isola.
Contrariamente a quello che si dice comunemente dei siciliani - che
erano ottimi gli intellettuali della città grandi e pessima la
plebe, mentre nelle campagne si affermava il contrario - c'era una
specie di alleanza fra i ceti più importanti della città, nobili e
popolani ed una unità d'intenti. La nobiltà era insofferente nei
riguardi dei Borboni e di Napoli come capitale del Regno che aveva
cancellato tutte le prerogative dell'aristocrazia siciliana e la
plebe dalle vessazioni cui era piegata dalla polizia borbonica.
A ciò bisognava unire la reazione dei gabelloti della Conca d'Oro e
dei paesi dell'entroterra, fulcro delle famose guerriglie che erano
state i perni delle due precedenti rivoluzioni. A questa concordia d'
interessi e di interessi di deve certamente l'esplosione della
rivolta della Gancia.
A capeggiarlo fu Francesco Riso, un fontaniere.
Ma egli s'era assicurato l' alleanza con la nobiltà di cui il capo
era il Barone Riso, e con le squadre dei paesi vicini alle città.
Due patrioti palermitani, Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, giunti in
Sicilia dopo molte peripezie avevano un po' imprudentemente messo in
giro la voce secondo la quale sarebbe venuto Garibaldi a liberare
l'isola a condizione che da essa partisse l'iniziativa della lotta
contro i Borboni. Sicché Francesco Riso si assunse l'iniziativa e la
responsabilità di una sommossa tale da sollecitare Garibaldi a porsi
a capo della guerra contro il tiranno borbonico. Ottantaquattro
uomini in tutto: 17 alla Gancia col Riso, 13 alla Zecca con La Bua,
51 alla Magione con La Placa, dovevano all' alba del 4 Aprile
muoversi dalle loro sedi ed unirsi per sollevare la popolazione e
richiamare le squadre della compagnia che dovevano trovarsi pronte ad
accorrere, partendo dalle porte di Palermo. Purtroppo la notizia
pervenne misteriosamente alle orecchie del capo della polizia
borbonica, il fedelissimo alla casa regnante Salvatore Maniscalco, il
quale assediò prima dell'alba del 4 Aprile il Convento della Gancia.
A Francesco Riso si pose il tremendo dilemma: attaccare comunque le
gurdie borboniche o dispendersi, attendendo momenti migliori. Affermò
ai suoi che ormai era troppo tardi per ritirarsi. Il conflitto durò
pochi minuti. I rivoltosi furono in parte uccisi in combattimento, in
parte fatti prigionieri. Le squadre paesane trovarono le porte della
città sbarrate dalle guardie e si allontanarono. Ma la rivolta
continuò nell'agro palermitano. Furono tagliati i fili del telegrafo
e la città venne isolata. Combattimenti volanti di svolsero un po'
dovunque nelle campagne. Ci fu addirittura una grossa battaglia dalle
parti di Carini dove morirono 120 picciotti. A questi fatti dobbiamo
certamente la decisione di Garibaldi di venire in Sicilia sciogliendo
il nodo dei dubbi che lo attanagliavano a Genova subito dopo la
notizia dell' insurrezione della Gancia era stata spenta. I 13
prigionieri presi dalle milizie borboniche furono fucilati nella
piazza che ad essi s'intitola. Francesco Riso, ferito gravemente,
morì in ospedale. Ma la rivolta della Gancia rappresentò forse il
momento più alto e più nobile della liberazione dell' Italia
meridionale e dell'unità d'Italia.
"la Repubblica", 5 aprile 2005
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