Dal sito di Elio Pagliarani, recupero una pagina della sua autobiografia poetica. Vi si racconta la genesi de La ragazza Carla, la sua prima operazione poetica importante, degli anni Cinquanta, e i rapporti di quel testo con la successiva produzione fino alla Ballata di Rudi, una composizione a più strati che impegnò il poeta dal 1961 fino al 1995. (S.L.L.)
Incominciai La ragazza Carla a
Milano fra settembre e ottobre del '54, erano da poco iniziate
le scuole, non ricordo se ero ancora nel vecchio "Istituto
Leonida", una scuola media privata in viale Umbria dove avevo
cominciato a insegnare nel '51, o se era un'altra nuova in via
Commenda, di cui ora non ricordo il nome.
Ricordo che iniziai a scrivere, a mano,
durante un compito in classe di italiano che avevo assegnato alla
scolaresca, di terza media, mi pare. E l'inizio del poemetto è
rimasto proprio quell'inizio: "Di là dal ponte della ferrovia
una trasversa di viale Ripamonti / c'è la casa di Carla..."; e
mi ricordo anche che un'allieva impicciona, con la scusa di chiedermi
qualcosa sul suo tema, venne a sbirciare cosa stavo scrivendo: per
lei non era né una lettera d'amore, né una poesia - come forse
sospettava. E deve essere rimasta delusa, suppongo.
Avevo già in mente buona parte della
trama. Dall'uscita delle Cronache, nella tarda primavera dello
stesso anno, ma probabilmente anche da un anno prima, mi preoccupava
il peso, che mi pareva eccessivo, delle mie vicende personali sulla
mia poesia e m'era diventata pesante nello scrivere la "tirannia
dell'io" ; lo avevo già avvertito nel risvolto delle Cronache,
scritto da me anche se anonimo, dove dichiaravo quella poesia
"gravata dalla troppa, ineluttabile carità di sé e conseguente
bagaglio". Quindi per lottare contro "l'ineluttabile"
avevo deciso di comporre un poemetto narrativo, con la sua brava
terza persona, che si occupasse di vicende contemporanee che non mi
riguardassero troppo direttamente.
Teorizzai poi tutta la faccenda nel
saggetto Ragione e funzione dei generi, uscito nel numero 9 di
"Ragionamenti", nella primavera del 1957.
La premessa era quella della necessità
dell'ampliamento del linguaggio poetico, anzi direi più
rigorosamente della capacità di tutto il linguaggio, comune e non
comune, di svolgere anche la funzione poetica; quindi lotta frontale
al pregiudizio della "parola poetica".
Cito dal saggetto: "Solo che
arricchire il vocabolario non significa necessariamente arricchire il
discorso, può voler dire anche arrecare turbamento e confusione.
Nessun vocabolo ha illimitate capacità di adattamento (e quante più
ne ha tanto più ne è avvilito); ogni vocabolo ha i suoi precisi
problemi di sintassi, si muove in una sua area sintattica. [...] I
problemi di sintassi investono per definizione tutto il periodo,
imprimendo una diversa tensione durata ritmo al discorso. Ma questa
designazione di tonalità [...] appartiene ai generi. La reinvenzione
dei generi letterari cui ora si assiste non è dunque che la
necessaria conseguenza dell'ampliamento del linguaggio poetico".
(Poi, aggiungevo, bisognerà tener conto dell'apporto dovuto al
genere in quanto tale che, se usato con consapevolezza, significherà
"reinvenzione non mera riadozione dei generi".)
Terminavo chiedendomi: "il genere
deriva dall'arricchimento del vocabolario, ma la volontà-necessità
dell'arricchimento sociologicamente che significa: libertà,
anarchia, coralità, partecipazione più ampia o premere di nuove
classi?". E concludevo: "forse è prematuro rispondere ora,
forse no; in ogni caso nel confronto della produzione poetica fra le
due guerre e l'attuale, appare chiaro come oggi i poeti tendano a
trasferire nel linguaggio poetico le contraddizioni presenti nel
linguaggio di classe, mentre la poesia pre-1945 sembrava ignorarle.
Strumento di questa operazione è il genre "poemetto",
il Kind poesia didascalica e narrativa - come il genre
"capitolo" è stato, a suo tempo, lo strumento
dell'operazione inversa, cioè di depauperamento e rarefazione della
prosa stessa".
La vicenda del poemetto, cioè la
moderna educazione sentimentale, cioè come si impara o non si impara
a crescere, ce l'avevo già tutta o quasi: avevo scritto nel '47-'48,
cioè proprio nel tempo del racconto della Ragazza Carla,
quando ero impiegato come traduttore dall'inglese e dattilografo in
una Società milanese di import-export, una cartella e mezzo per
un'eventuale soggetto cinematografico da proporre, possibilmente,
alla coppia De Sica-Zavattini. Un'idea velleitaria di un ventenne.
Il soggetto non venne recapitato a
nessuno e me lo ritrovai per caso in una qualche cartella, alcuni
anni dopo, quando già pensavo alla necessità di ridurre nei miei
componimenti l'invadenza del mio io.
E così, quando parve che decidessimo
di pubblicare il poemetto con Gianni Bosio per le Edizioni del Gallo,
alla fine degli anni Cinquanta, m'ero ripromesso di scrivere una
prefazione inserendovi il vecchio schema del soggetto
cinematografico, dicendo che la vicenda avrebbe potuto essere
raccontata in un romanzo breve o racconto, in un film o in un
poemetto; e avrei voluto dilungarmi sui diversi pedali da manovrare
nei tre diversi casi; nel caso del poemetto io ho usato soprattutto
il pedale del ritmo, tant'è che spesso mi è capitato di dire che
l'intento e la conseguente materia della Ragazza Carla
consistono nel ritmo di una città mitteleuropea nell'immediato
dopoguerra.
Il poemetto lo terminai il giorno di
Ferragosto del 1957. Potrei dire di averlo scritto en plein air
perché man mano che lo scrivevo me lo recitavo ad alta voce,
misurando il verso "secondo l'orecchio", e più ancora
perché ne leggevo via via dei brani ad alcuni amici, sempre ad alta
voce, anche per strada o meglio nei parchi, più spesso in trattoria,
anche in vere e proprie osterie, ne ricordo una in viale Umbria,
vicino al Leonida, che non ci dev'essere più da molto tempo, e
ricordo particolarmente quella dietro la Rinascente di piazza Duomo,
vicino alla Hoepli, detta mi pare il Bottegone, dove c'era
l'abitudine di suonare e/o cantare dopo i pasti e forse fui io ad
aggiungervi quella di recitare versi.
Ma il ritrovo dove ci si vedeva più
spesso era la trattoria di Poldo, in via Borgospesso, dove
costituivamo un gruppetto abbastanza fisso e piuttosto affiatato:
c'era e c'è il mio Virgilio, Luciano Amodio, guida assatanata e
indistruttibile, non solo di me medesimo (per lui conobbi i Solmi,
Vittorini, Fortini, Basso, Chiara Robertazzi, le tre sorelle
Bortolotti, Giancarlo Majorino, Michele Ranchetti, Ettore Capriolo,
Sergio Caprioglio che se n'è andato appena un mese fa, Antonino
Tullier fra Dada e surrealismo, scomparso già da molto tempo) ma di
tutta la giovanissima intellighenzia milanese in quegli anni,
almeno così a me pareva allora e ne sono convinto ancora, e c'era
Elvio Fachinelli, che non c'è più da troppo tempo, Gianni Bosio,
passione e sensibilità tutt'altro che ostentate ma sicuramente
smisurate, anche lui ci manca da troppo tempo, e meno male che posso
ricordare anche altri ben vivi, come Livio Zanetti, Giampiero
Dell'Acqua, Tonino Pitta.
Concluso il poemetto avevo il problema
di pubblicarlo, e pubblicarlo in luoghi culturalmente significativi,
ma il fatto è che mentre non avevo nessun pudore o timore di leggere
ad alta voce il testo agli amici personali, o ad invitati degli
amici, o anche a sconosciuti che si trovassero in zona, non
sopportavo l'idea di sottoporre il poemetto a giudizi ufficiali o
ufficiosi; decisi che avrei accettato di sottopormi solo al giudizio
di Pasolini e soltanto a lui inviai il dattiloscritto (anzi, mi pare
che glielo portai a Roma di persona): Pasolini lo conobbi
personalmente la prima volta nella primavera del '58 in casa di
Roversi, e c'era anche Leonetti, cioè tutto lo staff di "Officina",
dove mi avevano invitato a discutere con loro della rivista in una
specie di redazione aperta.
A Pasolini il poemetto interessò e
piacque, come mi scrisse; in un altro incontro mi disse che l'avrebbe
pubbicato nella seconda serie di "Officina" che stava
rinascendo in quel periodo con l'editore Bompiani; poi com'è noto
Bompiani decise di non proseguire con "Officina",
probabilmente a causa delle reazioni suscitate dall'epigramma di
Pasolini contro il Sommo Pontefice Pio XII.
Intanto passava il tempo e io rimanevo,
ma senza angoscia, abbastanza tranquillamente, con il mio
dattiloscritto inedito nel suo insieme; ne pubblicai però due brani,
uno piuttosto ampio sul numero 14, aprile-giugno '59, di "Nuova
Corrente" col titolo La Ragazza Carla nella fascetta di
sovracopertina e Progetti per la Ragazza Carla nel testo,
comprendente due brani assai significativi, mi pare: I (9) e III (5)
che sono appunto nella stesura definitiva, e corrispondono anche
nelle collocazioni a quanto pubblicato sul "Menabò 2" di
Einaudi, e nelle successive edizioni Mondadori. Sul "Verri"
di Anceschi apparve un altro brano, quello tutto maiuscoletto che
comincia "FONDAMENTO DEL DIRITTO DELLE GENTI..." (mi
sono dilungato su questi particolari, anche futili, perché in
qualche sede, anche di notevole prestigio, si è creduto opportuno
far notare che il mio poemetto di Milano risulterebbe posteriore a un
altro poemetto su Milano pubblicato nel '59. Ma, in ogni caso, e basi
dei miei interessi e del mio linguaggio, le avevo già definite
abbastanza compiutamente in Cronache e altre poesie pubblicate
da Schwarz nel giugno del '54).
Poi, per grande fortuna, nell'autunno
del '59 Vittorini mandò Crovi a chiedermi di fargli avere il testo
del poemetto (ormai sapevamo in parecchi che andavo leggendolo in
giro) per il "Menabò"; Crovi glielo presentò accompagnato
da una sua relazione favorevole, Vittorini lo lesse e poi decise con
entusiasmo di pubblicarlo subito sul secondo numero del "Menabò",
febbraio del '60. "Con entusiasmo" lo dico forse
arbitrariamente, ma penso appunto all'immediatezza della
pubblicazione, ed è un fatto che da allora Vittorini mi dimostrò
sempre molta amicizia e interesse specifico per il mio lavoro, mi
rimproverò più di una volta la mia pigrizia nel "darmi da
fare", mi fece vincere nel '61 o nel '62 la Borsa Cino del Duca,
di un milione di lire per progetti di lavoro, lavori in corso di
opere anche appena iniziate: e io vi partecipai col progetto della
Ballata di Rudi.
Ecco: mi ero dimenticato che anche la
Ballata di Rudi posso in un certo senso collegarla a
Vittorini. L'ho scritta tutta a Roma, nel periodo dalla primavera del
'61 all'inverno '94-'95. Nel corso di questo intervallo di oltre
trent'anni ne ho pubblicati diversi brani: un ampio brano uscì nel
numero 18 (il penultimo) di "Quindici", nel luglio '69; ne
ricordo altri su "Nuova Corrente" nel numero 51 del '70 e
nel numero 7 di "Periodo ipotetico", ancora a luglio ma del
'73, il quale ultimo contiene già per intero col titolo Doppio
trittico di Nandi tutte le sue parti (a, b, c e a1, b1, c1) che
furono poi ristampate in integrali e con altre varianti ritmiche nel
volumetto della Cooperativa Scrittori intitolato Rosso Corpo Lingua
Oro Pope-Papa Scienza nel gennaio '77; la più ampia raccolta di
brani del poemetto, prima dell'edizione completa di Marsilio nel
maggio '95, apparve nella raccolta intitolata Poesie da recita,
a cura e con intensa, acuta prefazione di Alessandra Briganti,
Bulzoni editore, 1985.
Mi pare che non ci sia altro da dire;
ma voglio segnalare una breve recensione di Stefano Crespi apparsa
sul "Sole 24 ore" del 25 giugno '95 perché in essa facendo
un confronto tra questi miei due poemetti (o racconti-romanzi in
versi) si anticipa per così dire la prima recensione a questa prima
edizione Mondadori che mette insieme i due testi; le recensione
lascia trasparire una preferenza sentimentale, vorrei dire, per La
Ragazza Carla con "la figura della contraddizione tra
tenerezza e ironia", mentre nella Ballata di Rudi "la
tenerezza ironica si muta nel grottesco, nel non senso. Alla
periferia della Ragazza Carla si sostituisce la periferia del
dopo-storia, la perdita dei nomi, dei volti...". Perciò,
conclude Crespi, tutto sommato La Ballata di Rudi "ha un
sapore difficile, un pò agro, ma rivela un'acuta sintomaticità
dell'oggi, una moralità, l'estrema consequenzialità di questo
autore (perfino nello stesso riscontro della sua figura umana, tra il
distacco e un'amara concentrazione). Nella radicalità di
un'espressione poetica, senza illusioni, ne esce una gamma di
personaggi tra il disagio, e il divertimento, la follia, la
terrificante ovvietà come di una spiaggia dove non ci sono colori'
".
E certo, al tempo della Ragazza
Carla non solo l'autore coltivava "svariate idee d'amore e
di ingiustizia", ma anche tutto il nostro Paese: non così
certamente negli anni della conclusione della Ballata, e anche prima,
anche molto prima.
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