L'articolo che segue fu
pubblicato su “Quotidiano donna”, un settimanale femminista dalla
vita incerta e avventurosa che fu pubblicato dal 1978 (in origine
come supplemento del “Quotidiano dei lavoratori”, ma presto
autonomizzatosi) a tutto il 1981. Amelia Rosselli, la figlia poetessa
di Carlo Rosselli, aveva appena ricevuto il premio di poesia “Pier
paolo Pasolini”. (S.L.L.)
Amelia Rosselli (foto di Dino Ignani) |
«...Ha due grandi occhi
azzurri, capelli biondi (molti), un naso che appartiene alla famiglia
delle patatine... Il primo giorno sono stato realmente indeciso se
chiamarla Amelia; mi pareva di sentirla, la zia Gì, dire tra sé e
sé: ma con che coraggio hanno dato a questa pupa il nome di una
nonna così bellina, fine e perfetta?».
Insomma, Carlo Rosselli
non trovava abbastanza «bella» la bambina che gli era appena nata,
il 28 marzo” 1930, nell'esilio di Parigi. per farle portare lo
stesso nome di sua madre, Amelia: profondamente affascinato com'era
stato sempre (e con lui il fratello minore. Nello) da quella figura
di donna, Amelia Pincherle Rosselli, che aveva cresciuto, da sola, i
figli, in un clima di insolita (per quei tempi, per quell'Italietta)
ricchezza di fermenti culturali e politici, educandoli al gusto
irrinunciabile, e tuttavia, severo, della libertà e preparando
quindi il terreno del loro antifascismo davvero militante, dove i due
fratelli, Carlo e Nello, avrebbero poi trovalo insieme la morte, a
Bagnoles de L'orne, il 9 giugno 1937, per mano di una banda di
sicarii francesi di Mussolini.
Se nella vita della
bambina che nasceva allora, in quella primavera parigina di un esilio
già inquinato ma ancora addolcito dagli agi e soprattutto, dalla
possibilità di coltivare antichi e nuovi legami di tenerezza
(l'amore di Carlo per la moglie, la fragilissima inglese Marion Cawe,
l'idolatria per la madre rimasta a Firenze, l'allegria, per
l'appunto, di una nascita, quella di Amelia, che seguiva di poco più
di un anno l'altra del primogenito, John, detto il Mirtillino), se
dunque non ci fosse stato altro, nella vita di Amelia Rosselli —
questa Amelia che noi conosciamo, che scrive poesie d'una bellezza
lancinante, le più significative, dicono, nei panorama della
produzione poetica italiana di oggi — forse già l'ombra
leggendaria della nonna avrebbe un poco schiacciato, premuto col
sottile tremore dei confronti (sarò abbastanza bella? sarò
abbastanza straordinaria, come lei, nonna Amelia?) sulla crescita di
una personalità nuova, già segnata, fin dalla nascita
dall'affettuosa diffidenza del padre. (Il quale, tra l'altro, avrebbe
preferito subito un altro maschio...).
Comunque Amelia, detta,
in famiglia, Melina, si conquistò presto anche l'amore di quel
padre, con lucida intelligenza votato ad un destino d'eroe. E quando
dovrà dividersi dai figli piccoli restati, per prudenza, in Italia,
nella villa della nonna, a Frassine, Carlo scriverà a Melina: «E tu
Melina ti ricordi i balletti e i bacini nel letto...? Quando
tornerete, ora che avete imparato a parlare l'italiano., rideremo,
salteremo, staremo ritti... sempre in italiano! ».
Questa lingua italiana
che Amelia ha dovuto conquistarsi poi, già adolescente,
faticosamente, caparbiamente, e che costituisce, con la sua
persistente «stranezza» — come una vena sempre di lingua
straniera, inglese, francese, che lo percorre — uno dei fascini
(del resto sapientemente amministrati da lei stessa, Amelia) della
sua poesia.
«Mia madre mi diceva
sempre: ricordati che una ragazza deve possedere almeno un armadio
grande, pieno di biancheria ordinata, profumata... Ho inseguito tutta
la vita il sogno di un armadio...». Questa è una delle prime frasi
— e mi è restata per sedici anni in testa — che Amelia Rosselli
mi disse, quando la incontrai per la prima volta, nel 1965.
E subito la sua esistenza
rappresentò per me il segno rovesciato della mia: io fuggivo, o
perlomeno ero fuggita a vent'anni, da lutto ciò che lei (ma quasi
timidamente, chiedendo scusa per il disturbo) invece inseguiva: un
armadio carico di biancheria ordinala, la sicurezza. La sua infanzia
falciata dalla tragedia, lo sbarco di tutta la famiglia Rosselli in
lutto negli Stati Uniti, dove Max Ascoli provvide anche agli studi
dei ragazzi, e sempre questa sensazione, in lei, di non avere radici,
il bisogno caparbio di reinventarsi una patria, l'Italia (i suoi due
fratelli, invece, hanno rifiutato questa identificazione, per sempre:
come portando rancore, e chi potrebbe non dar loro ragione? per ciò
che noi, dopo, abbiamo fatto del sacrificio dei Rosselli). A Sedici
anni, dunque, Amelia è tornata a vivere da sola in Italia, a Roma.
La madre era morta di cuore in un ospedale di Londra, i beni della
famiglia Rosselli quasi tutti esauriti, consumati nella lotta
antifascista prima, nella sopravvivenza almeno fisica dei superstiti,
dopo.
Amelia vive oggi con due
pensioni dello Stato italiano. Con la suprema eleganza delle persone
per molti versi «fuori del comune», mi mostra i due libretti
intestati del Ministero del Tesoro, uno che le assegna una somma
attualmente «rivalutata» (sic!) a centomila lire al mese, come
«orfana di Carlo Rosselli», ed il secondo che gliene elargisce
altre 40.000, «per benemerenza».
«Pare che non si possano
indicizzare», osserva con una lievissima ironia. «La prima pensione
mi fu data per iniziativa di Saragat, nel 1966, ed era, mi sembra, di
sessantamila lire al mese. Ora me l'hanno portata a centomila, ma di
più pare che non sia possibile».
Siamo nella sua mansarda,
tutta legno, arredata quasi unicamente di libri, con un balconcino
stretto, barocco, che s'apre vertiginoso, sui tetti della vecchia
Roma, in vista della cupola della Chiesa Nuova. Amelia non possiede
altro, né può avere un lavoro stabile, perché da sempre
(certamente da quando io la conosco) è insidiata da quel male che
noi donne sappiamo bene, con cui contrattiamo, giorno dopo giorno, la
nostra sopravvivenza: ed anche Amelia combatte e non cede. Puoi fare
con lei un lungo discorso perfettamente lucido — e io le devo, per
esempio, l'idea che ho poi perseguito in tutti questi anni, di
tentare di stabilire qual è il costo della politica in termini di
vita, e quanto pagano, soprattutto, coloro che non hanno scelto, le
donne degli eroi, i loro figli... — e poi improvvisamente,
quietamente, ti dice: «Stamattina sono dovuta uscire molto presto di
casa, perché loro mi perseguitavano.
Loro, in questo
momento, ci vedono... Hai sentito questo sibilo?». «Credevo fosse
il televisore». «No, vedi bene che il televisore è spento». (E
davvero il sibilo l'ho sentito).
Storia di una malattia
s'intitola il raccontò
che Amelia ha pubblicato qualche anno fa su «Nuovi argomenti»: ed è
la storia della sua persecuzione. «Da dove partano certi attacchi —
inizia il racconto — a volte resta un mistero, o un mezzo mistero:
ne seguono ipotesi a dozzine, alcune probabili, altre scartabili. Ma
in questo caso (di cui intendo dare descrizione) fu un medico ad
avere il coraggio di accusare e specificare l'origine del mate.
Questo nel 1971, le noie duravano dal 1969, il male si fece specifico
nel 1971, la malattia si fece acuta nel 1973 e peggiorarono le
condizioni nel 1976-77. Poi vi fu un brusco calo della febbre. La
malattia era la CIA, il suo corrosivo o punto d'attacco il SID o
l'Ufficio Politico o ambedue...».
Iscritta al PCI, quasi
subito dopo il suo ritorno in Italia, Amelia è dunque l'unica, dei
tre figli di Carlo Rosselli, che s'è caricatale su spalle tanto
fragili, il peso di una appartenenza, anche politica, al paese per la
cui «liberazione» (impossibile?) la sua famiglia s'è distrutta.
Certo, anche le donne, di quella famiglia, in qualche misura
sceglievano la via del sacrificio per la Grande Causa, e senza dubbio
— è lei stessa a riconoscerlo — «la nonna Amelia ebbe un
grandissimo peso nel modo di essere di mio padre e di mio zio...».
«E tua madre?». «Oh, mia madre era una donna bellissima, e molto
più avventurosa, forse, anche di mio padre... Non lo trattenne mai;
eppure lei, con discorsi di prudenza... Soltanto gli ultimi anni mi
faceva quei discorsi, diciamo, da donna: un armadio, un corredo, un
marito... Chi sa...».
Fino ai venticinque anni,
Amelia studiò musica: scriveva già, ma, specialmente, suonava: il
pianoforte, il clarino, il violino. Ha elaborato, in quell'epoca, una
grossa tesi su Beethoven, ha partecipato ad alcune performances di
Nuova Consonanza.
«Poi ho smesso: non si
può fare musica e poesia. O l'una o l'altra. Entrambe sono
discipline severe». E poi, a proposito dei suoi Primi scritti,
poesie e prose in tre lingue, pubblicate da poco da Guanda: «Ho
smesso anche di scrivere in inglese, perché ero diventata, in questa
lingua, di un virtuosismo diabolico. Vedi questi sonetti
elisabettiani? Il virtuosismo uccide, a lungo andare, la poesia». E,
ancora, bruscamente: « Per un certo periodo loro mi hanno
impedito di scrivere, poi anche di leggere... Ora va meglio. Ho
ricominciato anche a scrivere. Del resto, ho ancora della roba
inedita, non mi va di pubblicare tutto... però guarda questo... L'ho
chiamato Diario ottuso, e, secondo me, è il mio testo più
auto-biografico».
“Quotidiano donna”,
20 marzo 1981
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