Nel maggio del 1984 (era
ancora vitalissimo il nuovo femminismo) si svolse ad Alessandria un
convegno su Sibilla Aleramo. Il quotidiano “il manifesto” coprì
l'evento con una presentazione del convegno e con la pubblicazione di
un ampio stralcio della relazione di Lea Melandri, pezzi che sono
entrambi qui “postati”. (S.L.L.)
Il convegno (Lidia
Campagnano)
A Sibilla Aleramo si
addice una notorietà intermittente: oggi è Alessandria che si
incarica di riproporne vita e opere alla discussione, con un convegno
dal titolo «Scrittura e coscienza» che si tiene oggi e domani a
palazzo Vitale, a cura dell'assessorato alle attività culturali
della provincia e dell'Istituto Gramsci di Roma. Un convegno un po'
particolare, con testimonianze, interventi di carattere letterario,
riconsiderazioni sulla sua biografia.
Il primo ricordo di
Sibilla verrà raccontato da Fausta Cialente, sua, severa e
affettuosa amica, l'unica esecutrice testamentaria donna della
scrittrice: è sua la prefazione al volume di diari pubblicato per
primo da Feltrinelli (il diario degli ultimi anni). Alba Morino
renderà invece conto della vicenda editoriale degli scritti di
Sibilla, vicenda singolare e significativa appunto per la sua
intermittenza, per il contrappunto disagio-passione che l'intreccio
vita-scrittura proposto da questa donna suscita da un decennio
all'altro.
Alba Morino guarda a
questa storia con l'occhio di chi con costanza ha sostenuto la
necessità di pubblicare le opere dell'Aleramo, compresi i diari (o
soprattutto i diari). È stata lei a curare la loro pubblicazione
presso Feltrinelli e a ricostruirne una nuova e interessante
biografia insieme a Bruna Conti dell'Istituto Gramsci (che interverrà
sull'immenso materiale da lei inventariato presso l'istituto),
attenta al segnale lasciato dalla stessa Sibilla nelle sue pagine,
quando alludeva alla speranza di un biografo. (Il primo biografo non
fu poi il suo «ultimo errore», Franco Matacotta, bensì Piero
Nardi).
La novità
rappresentata dall'interesse della donna d'oggi per la scrittrice è
una critica al “modo” con cui si è manifestato questo interesse
negli anni recenti della riedizione di «Una donna» viene proposta
da Lea Melandri (che per il secondo volume dei diari ha scritto una
postfazione). Della sua relazione, che rintraccia in Sibilla un tipo
di coscienza femminile così forte e «spudorata» da consentire
davvero, proprio secondo il suo sogno, l'assunzione dell'immensa mole
dei suoi scritti, «tutta una vita», come una miniera vitalissima di
pensieri per le donne, pubblichiamo uno stralcio.
Conclude la prima
giornata Giuliana Morandini, autrice di una acuta e ricca analisi
(«La voce che è in lei») sulle scrittrici italiane tra Ottocento e
Novecento (Bompiani).
Sabato, Giorgio Luti
parla di Sibilla Aleramo nell'esperienza letteraria del Novecento,
Marino Biondi sulle figure maschili presenti negli scritti, Anna
Nozzoli dei romanzi e delle prose, Simone Costa di Sibilla e
d'Annunzio.
Al pomeriggio tavola
rotonda con Adele Faccio (nipote di Sibilla), Davide Laiolo e Barbara
Zangrino. Infine, proiezione del filmato «Una donna» di
Bongiovanni. (Lidia Campagnano)
La
persona e l'idea (Lea Melandri)
Il romanzo Una donna,
rispetto agli altri scritti dell'Aleramo, si può considerate un caso
a sé per ragioni opposte a quelle che l'hanno reso famoso. Il
carattere autobiografico, e probabilmente la vicenda che vi è
narrata, per l'effetto emotivo e fantastico che può suscitare, hanno
tratto in inganno al punto da far confondere la costruzione di
un'immagine ideale di sé condotta con un rigore e una linearità
quasi geometrica, con l'esperienza reale dell'autrice.
Dove si è voluto vedere
l'esempio di un cambiamento storico della personalità femminile, e
la nascita di una donna, in realtà si assiste alla nascita di un dio
e di una religione, sia pure impastata, come dice Sibilla di
«ascetismo e paganesimo».
Il libro, che doveva
essere una fedele trascrizione dela vita, diventa il vangelo di chi
sente «depositaria di verità» destinata a rappresentare «qualcosa
di raro nella storia del sentimento umano». Per combattere un ordine
sociale e morale, Sibilla è costretta a farsi «cosa sacra», per
essere «disumana» diventare sovrumana, anzi «l'Umanità stessa,
schiava e ribelle alle proprie leggi»; per raccontare la miseria e
la morte silenziosa delle donne, deve immaginare un martirio eroico,
l'«immolazione» di sé stessa nella scrittura che la farà
rinascere come esempio luminoso per tutte le altre; per aver
abbandonato il suo compito di madre e di moglie, deve prendere sulle
spalle il destino del mondo.
Riferendosi a quella sua
«primavera santa», a quel «religioso culmine», che furono gli
anni della sua attività sociale, nelle scuole popolari e nel
femminismo, l'Aleramo nel Passaggio dà di sé una definizione
molto precisa: «Come se io fossi, invece di una persona, un'idea da
estrarre, da manifestare, da imporre da portare in salvo» (Il
Passaggio, Mondadori, p. 11)
Il romanzo, scritto nel
periodo di maggior fervore umanitario di Sibilla, è appunto lo
sforzo di creare, attraverso la scrittura, un'ideale «unità» e
«armonia», in cui s'incontrano due ordini di idee: quello di
un'epoca, con le sue aspirazioni rigeneratrici, coi suoi profeti,
filantropi, scienziati, e quello della sua infanzia, il sogno di
perfezione che il padre aveva costruito su di lei.
Tra l'«alba» luminosa
della sua fanciullezza e il grande sole che s'accinge a diventare,
Sibilla traccia
una linea continua
rappresentata da quell'«ideale immagine virile», che si appoggia,
da un lato al padre, tenero e intelligente, dall'altro a Giovanni
Cena, con cui vive in quegli anni e nel quale crede di vedere «tutta
un'umanità in lotta per la propria sorte».
Ma per riportare e
ricomporre su di sé la dualità con cui l'uomo contrappone,
astrattamente e violentemente, «sensi e ragione», sensibilità e
forza, maschile e femminile, essa non può immaginare che delle
nascite che sorgono miracolosamente dalla morte e che si presentano
con tutti i caratteri di una trasfigurazione mistica: la prima, che
avviene attraverso il figlio, è «mistero radioso» che vede
trasformarsi «un povero essere implorante pietà» in un «atomo
dell'infinito». La seconda, che fa seguito a un tentativo di morte
volontaria, è l'assunzione di una maternità sociale, sublime e
onnipotente, che contrasta con l'esperienza reale dell'essere madre,
in cui Sibilla aveva conosciuto invece senso di annegamento,
sacrificio e perdita di tutte le sue energie.
Che non si tratti della
comparsa di un'individualità femminile, comeingenuamente e
ideologicamente si è creduto, lo dimostrano anche gli scritti, dello
stesso periodo, con cui l'Aleramo partecipa alle lotte di
emancipazione, e che sono stati raccolti da Bruna Conti nel libro La
donna e il femminismo.
Alcune espressioni, che
nel romanzo lasciano un margine di dubbio e di ambiguità, come: «in
me la madre non si integrava nella donna», oppure «avevo formulata
la mia legge», diventano più chiare se confrontate con le immagini
che in questi scritti dominano quasi uniche, e che si richiamano, in
modo evidente, alle «doti virili» di Sibilla, a quella volontà di
dominio e di conquista, quel senso della propria grandezza, di cui si
parla ampiamente nelle Lettere a Lina.
Per un compito titanico,
come quello di rigenerare un'umanità «triste» e «smarrita», era
necessario un corpo femminile, ma dotato del potere fecondante
dell'uomo, o della sua capacità combattiva.
È per questo che la
donna, che comincia la sua battaglia nel mondo, assume ora l'aspetto
della vergine guerriera, la «maternità verginale» delle «moderne
ascete», ora quello di una forza creatrice che tiene insieme il
principio maschile e femminile : «Queste fanciulle stanche,
nevrotiche, queste mogli capricciose e sciocche, voi le vedrete come
per incanto trasformarsi in donne vive, forti e frementi
d'entusiasmo, splendide di coraggio e di virtù». E ancora:
«manipolo gagliardo di donne gentili che uniscono le voci loro alle
più intemerate del paese e si dimostrano altissimamente educatrici
della società, rigeneratrici della coscienza umana». (La donna e
il femminismo, Editori Riuniti, p. 42 e 61)
Alla maternità, che
Sibilla aveva descritto come vuoto d'esistenza, sparizione dentro la
vita d'un sacrificio «sacrilego» della propria individualità, si
vengono a contrapporre, sul versante dell'attività sociale: una
maternità che è definita molto acutamente «istinto di espansione»,
una «legge» e un «ordine» che sono ancora quelli della madre,
anche se rappresentano lo sforzo di volgere in attivo un destino che
le donne subiscono passivamente, e che è l'alternarsi di vita e
morte, gioia e dolore, saggezza e follia.
Con questo però si apre
una divaricazione tra privato e pubblico, tra scrittura e vita, che
nella lunga esistenza dell'Aleramo si può considerare una parentesi
isolata.
Mentre, esternamente
l'impegno è volto a delinare il compito storico delle donne, con
quegli attributi di onnipotenza, purezza, eroismo, di cui ha bisono
un dio per contrapporsi a un'altro dio, all'interno della casa, nel
rapporto quotidiano con un uomo, cresce di nuovo la delusione e la
coscienza della propria debolezza. Le situazioni e i pensieri, che il
romanzo deve tacere, per lasciare che si formi un'immagine grandiosa,
si ha motivo di credere che siano, al contrario, quelli che, nella
vita reale, hanno avuto un peso: innanzi tutto il rinascere del
desiderio d'amore, la relazione con Felice Damiani, e la parte avuta
dalla sessualità nell'abbandono del marito, di cui nel libro ci sono
solo brevi accenni:«Per lui avrei forse potuto vivere senza
mio figlio... inginocchiarmi davanti a lui, adorare la sua anima
misteriosa... servirlo, dargli il mio impegno, la mia penna, la mia
vita» (La donna e il femminismo, p. 61).
A proposito del corpo,
una frase breve ma indicativa: «la carne era stata più ribelle,
aveva urlato, s'era svincolata; ad essa dovevo la mia liberazione»
(Una donna, p. 101).
Anche se Cena, come
scrive più tardi l'Aleramo, ha avuto un peso determinante in queste
amputazioni, non c'è dubbio che esse sono la conseguenza di una
frattura e di una contraddizione più profonda: il dolore che Sibilla
vorrebbe rendere trionfalmente «secondo» per essere ancora la
bambina «forte e gagliarda» della sua infanzia, a fianco di nuovi
padri, non è lo stesso di quello che si annida all'ombra di un
rapporto che, visto a distanza di anni, le sembrerà «qualcosa di
molto più grave di un matrimonio».
“il manifesto”,
venerdì 18 maggio 1984
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