Con cadenza pressoché
regolare la Coldiretti organizza manifestazioni a sostegno
dell’agricoltura. Sono colorate e allegre. Puoi vederle già da
lontano, come delle boe in cielo, grandi palloni gialli, gonfiati a
elio che dondolano bonariamente al vento. Gli slogan che animano la
protesta in genere si concentrano su alcune caratteristiche della
nostra agricoltura. E sono la qualità prima di tutto, e naturalmente
la tipicità e la diversità, orografica e climatica. A seconda
dell’umore tendo a prendere le suddette manifestazioni o bene o
male. A volte penso che aiutino la nostra agricoltura, perché
richiamano l’attenzione del cittadino sulle nostre campagne. Altre
volte invece il cattivo umore si fa sentire e penso che no, con
questo immaginario bucolico non riusciremo mai a rafforzare la nostra
agricoltura. Ma i miei umori non fanno conoscenza.
Affrontiamo allora meglio
la questione: tutti noi tecnici - e io lo sono, svolgo da 27 anni un
ruolo ispettivo al Mipaf - sappiamo la verità: la nostra agricoltura
è in difficoltà. E un po’ di numeri fanno capire la portata del
problema. Sono dati Istat/Eurostat, si riferiscono al 2015. Un primo
dato sembra promettente. È il valore della produzione agricola
italiana, passato da 50 miliardi di euro dal 2005 al 57 miliardi del
2015, dunque più 14%. Per un titolista è un invito a nozze, può
facilmente scrivere che la nostra agricoltura è in ripresa, poi però
bisognerebbe smontare il dato e capire per esempio quali settori
hanno contribuito al suddetto miglioramento. Purtroppo sono le
attività extra agricole, agriturismi e simili, cose buone certo, ma
non legate direttamente alla produzione.
Confronto europeo
Poi c’è una
comparazione da fare, è vero che noi siamo cresciuti, ma la Ue nel
suo complesso è cresciuta di più, del 22%. Poi passiamo
all’occupazione agricola, è in calo da 972.000 mila (2005) a
878.000 (2014). Questo calo, lo sappiamo, è fisiologico è
cominciato decenni prima con la rivoluzione verde e con
l’industrializzazione. Ci sarebbero tanti fattori da analizzare, ma
basta riflettere su un punto. Grazie alla rivoluzione verde siamo
usciti dalla miseria - agrofarmaci, concimi, miglioramento genetico,
meccanizzazione, irrigazione - la produzione è aumentata, la qualità
del cibo anche. Ora con meno terra e meno braccia produciamo di più
e meglio. Vuol dire che abbiamo eliminato i costi? No, per niente,
nei decenni scorsi abbiamo pagato un certo uso spregiudicato dei
diserbanti e degli agrofarmaci. Ci siamo lamentati e l’industria
chimica ha provveduto: non c’è confronto tra un agrofarmaco di
vecchia generazione e uno moderno. Dobbiamo smettere di lamentarci?
Tutt’altro. Oggi il miglioramento genetico e la conoscenza più
profonda del dna offrono uno strumento straordinario per rafforzare
la pianta, dotarla di resistenze alle malattie e usare meno chimica.
Possiamo, per fare un esempio, coltivare la lattuga anche nei nostri
orti senza temere la peronospora perché nella piante sono state
introdotte varie resistenze al fungo.
Andiamo avanti. Vediamo
l’export. Buone notizie, da 4,1 miliardi (2005) a 6,6 miliardi
(2015). Tuttavia le importazioni sono aumentate da 9,2 miliardi
(2005) a 13,8 miliardi (2015). Quindi saldo commerciale import/export
negativo (-7,2 miliardi). I redditi agricoli infine crescono dal 2005
al 2015 del 14%, ma nella media Ue salgono molto di più, del 40%.
L’agricoltura italiana
soffre, e possiamo evidenziare tre cause concatenate. La prima è
strutturale, riguarda la superficie delle aziende, in gergo:
frammentazione delle imprese agricole. Prendiamo due comparti: quello
agrumicolo e quello olivicolo, due vanti, due punti di forza. Le
imprese agrumicole si attestano intorno a una media di 1,65 ettari di
superficie agricola, molto bassa – del decennio 2000/2010 la
dimensione è passata da 0,86 a 1,62, ma solo perché si è ridotto
il numero complessivo delle aziende. Detta in breve, la maggior parte
delle aziende agrumicole non hanno una dimensione economica tale da
garantire un reddito sufficiente. La produzione viene infatti
soddisfatta da poche aziende medie/grandi (le aziende superiori a 20
ettari costituiscono il 30% della superficie agrumicola italiana).
Quello olivicolo invece?
E niente, solita ridottissima dimensione, siamo attorno a 1,78
ettari. Questo dato va ancora scomposto: il 38% delle aziende ha meno
di un ettaro (questa classe rappresenta il 14% sul totale coltivato),
mentre il 10 % delle aziende ha più di 10 ettari (e rappresenta il
34% della superficie coltivata). Nel mezzo una variegata classe di
aziende con pochi ettari. Questa tipologia la potete trovare in quasi
tutti i comparti.
Seconda causa:
anagrafica. L’età dei coltivatori è alta, la scolarizzazione è
bassa. Gli olivicoltori per esempio (ma non solo loro) stanno
invecchiando. Il 41% è sopra i 65 anni, e il ricambio generazionale
è bassissimo, appena il 3% ha meno di 34 anni. Quindi frammentazione
e invecchiamento uguale poca o scarsa propensione all’innovazione.
La verità che tanti coltivatori lo sono part time, è più un hobby
o una professione?
Il paradosso olio
L’Italia è uno dei
principali produttori e anche il principale importatore di olio.
Dunque prendiamo dalla Spagna, Grecia, Tunisia, Turchia, Portogallo e
Francia. Tutta l’area del Magreb sta imparando a coltivare l’olio,
e ormai come qualità si stanno avvicinando molto agli standard
spagnoli. Importiamo, tagliamo, esportiamo e siamo anche i primi
consumatori d’olio ma non innoviamo, alcuni dicono che la nostra
olivicoltura è un museo: qualcosa da guardare.
E qui arriviamo alla
terza causa che si lega con le prime due: l’immaginario bucolico,
che genera ansia nei confronti dei nuovi metodi di coltivazione. Se
parliamo di innovazione dei cellulari siamo tutti contenti. Se
parliamo di innovazione in agricoltura sembra un attentato alla
tradizione. Pensate quante trattorie della nonna esistono in Italia.
E quante poche trattorie dei nipoti, molto passato, poco futuro.
Visto tutto ciò, se
proponiamo una coltivazione di olivo super intensiva - metodo che con
opportune precauzioni si potrebbe, anzi si dovrebbe sperimentare -
difficilmente otterremo credito. Sia nei colorati cortei sia nelle
stanze del Palazzo. Già sento i commenti, vuoi mettere le olive
nostrane? E quelle di una volta? Eppure, l’obiettivo auspicato è
quello di innovare per diversificare, proprio a partire dal prodotto
nostrano. Per esempio usando genotipi di nuova costituzione. Del
resto, abbiamo germoplasma italiano e vastissimo, e qui non c’entra
il campanilismo, è un modo per rispettare la speciale orografia
italiana, quindi utilizzeremo e miglioreremo il materiale vegetale
nostrano.
Pomodoro
industriale
Io lo so c’è ancora
qualcuno che rimpiange le conserve fatte in casa. Magari ognuno ha un
ricordo particolare di quel periodo, e contro i ricordi si può far
poco. Pensate tuttavia a questo dato. Oggi possiamo acquistare
un’ottima passata di pomodoro italiano con solo un euro. Possiamo
acquistare questa passata perché ci sono ottimi pomodori da
industria. Il primo segreto per far un buon pomodoro da industria è
l’acqua. Oggi possiamo controllare l’umidità del terreno con dei
sensori e quindi stabilire quanta acqua è necessaria alla coltura, e
successivamente con l’irrigazione a goccia dare la giusta quantità
d’acqua.
Il secondo segreto è
raccogliere i pomodori al momento giusto, né troppo verdi, né
troppo maturi. Allora vengono coltivati specifici pomodori (frutto
del miglioramento genetico) che maturano nello stesso momento: quindi
si sceglie insieme ai trasformatori la data di messa a coltura della
piantina di pomodoro, e dopo 14/16 settimane inizia la raccolta: meno
costi più efficienza, meno pomodori immaturi o troppo maturi. Una
volta le fabbriche di trasformazione stavano lontane, quindi si
riempivano i camion all’inverosimile e si portavano i pomodori
verso le industrie. Oggi campi e fabbriche sono vicini, quindi si
spreca meno tempo. Terzo segreto, usare meno calore nella
trasformazione, così si risparmia energia e soprattutto non si
altera il sapore.
Tutta questa filiera per
funzionare richiede innovazione e collaborazione costante tra
produttori e trasformatori. Eppure diciamoci la verità chi
parlerebbe di questo metodo di produzione come salutare e frutto
dell’ingegno umano? L’industria non ci piace, ci spaventa e
preferiamo raccontare delle belle e costose conserve di una volta o
del contadino artigiano. È un problema di immaginario, e
nell’immaginario agricolo non entra la parola innovazione.
Così pochi di noi sanno
che esistono 75 mila varietà di pomodori, creati ex novo dall’uomo.
Possiamo mangiare datterini e ciliegini e pomodori da insalata e da
riso, da aperitivi, e appunto da conserve. Pomodori che crescono
tutto l’anno e pomodori che richiedono meno agrofarmaci e meno
acqua e durano di più dopo la raccolta. Il problema dell’agricoltura
italiana è proprio un certo immobilismo, preferiamo le rendite di
posizione, forse siamo convinti d’essere soli al mondo e non
soggetti alla concorrenza. O basterebbe cambiare il punto di vista e
saperlo raccontare per avere possibilità in più. Siamo passati da
Pinocchio, il romanzo della fame, a Masterchef, ora dobbiamo passare
a agricoltura 2.0, sostenibile, buona e giusta, e credetemi, a
prescindere dai miei umori, l’innovazione è tutto, è un
meraviglioso pallone a elio che ondeggia in cielo e ci indica la
strada.
Pagina 99, 29 luglio 2016
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