Un'America reale e assurda in cui Mark Twain si mescola con Groucho Marx
L'ambizione di Kurt
Vonnegut è, dichiarata o no. quella di diventare il Jonathan Swift
dell'America dei nostri giorni. Naturalmente la critica ufficiale
Italiana non si è ancora accorta di lui, forse respinta dalla
dispersione delle sue opere tra più editori (Mondadori, Rizzoli) e
ancor più dalla sua passata qualifica di «scrittore di
fantascienza», cioè di genere. In realtà, per quello che se ne può
capire non essendo americanisti, Vonnegut è assieme a Kosinski il
più interessante, eterodosso e «pubblico» degli scrittori
americani contemporanei. Pubblico in che senso? Perché parla della
«cosa pubblica» che è l'America, il suo mito, la sua vitalità, la
sua o le sue mostruosità e riesce a darcene via via un ritratto
sfaccettato, iperbolico, paradossale: dove il ricorso al paradossale
e alla deformazione si configura come una delle poche strade
frequentabili per rendere l'«idea» dell'America, un'essenza e una
sintesi.
A modo loro, i romanzi di
Vonnegut sono «storici» (si muovono agilissimamente nel tempo e
sono pieni di riferimenti nonché di personaggi della storia
americana), «fantastici» (sviluppano una tensione tra il reale e
l'assurdo sul filo della probabilità, eredità del tirocinio nella
fantascienza; e per il tramite di Kilgore Trout, personaggio di
pazzoide scrittore di fantascienza che compare in quasi tutti i suoi
libri, confrontano le regole di vita di mondi immaginari con quello
del mondo americano), e «morali» (sono pieni di parabole, magari
sotto forma di barzellette, che cercano di ricavare dalla mescolanza
dell'assurdo e del concreto indicazioni di comportamento, linee di
valori, ciò che è giusto e ciò che non le è). Il tutto con una
andatura galoppante di narratore orale scaltrito dallo show
americano: un conferenziere-entertainer, versione yankee della
narrazione di tipo orale cara al Benjamin commentatore di Leskov.
Come dire un po' di Irving e Twain, un po' di Hawthorne o Bierce, un
po' di Sheckley (e naturalmente del Vonnegut dei romanzi di
fantascienza degli anni sessanta!) e un po' di Groucho Marx e di
Lenny Bruce. All'ombra certamente divertita e benedicente, di
Jonathan Swift. Si sarà capita l'originalità del percorso derivata
dalla poco edita fusione di questi elementi, ma non ancora dove
Vonnegut vuole arrivare, che America risulta da questa combinazione.
Dopo Mattatoio 5 o la
crociata dei bambini (il suo capolavoro) e Dio la benedica,
signor Rosewater o le perle ai porci, questo suo romanzo, Un
pezzo da galera, l'ultimo tradotto in italiano (Rizzoli, lire
8000, nel coacervo indigesto della collana «La scala»), perfeziona
la formula vonnegutiana attraverso la vicenda di Walter F. Starbuck,
un anziano e divagante signore che ha amato quattro donne nella sua
vita (la propria madre, una ragazza ebrea reduce dai lager conosciuta
a Norimberga all'epoca del processo, una signorina di buona famiglia
industriale in decadenza, e infine una agitatrice proletaria che
Starbuck ritroverà da vecchio sotto gli stracci di una mendicante e
l'identità di una multimiliardaria padrona di un immane monopolio
mondiale, misteriosa, barbona alla ricerca di «giusti» cui affidare
le sorti, con i soldi, di una rivoluzione altrettanto mondiale); che
ha studiato a Harvard grazie all'aiuto di un magnate balbuziente con
cui giocava a scacchi da bambino; che è stato pluridecorato per
meriti, burocratici, di guerra; che ha un passato anni trenta di
comunista e ha collaborato non volendo alla caccia alle streghe di
MacCarthy; che è diventato inutile consigliere di Nixon per i
problemi della gioventù; che si è ritrovato dentro lo scandalo del
Watergate e in galera perché i superiori politici gli hanno nascosto
nel sottoscala della Casa bianca dove ha l'ufficio un valigione di
soldi compromettenti; che, ritrovata la mendicante-miliardaria, è
diventato dopo la morte di quella, dirigente del monopolio prima che
lo stato lo faccia suo sfasciandolo con l'efficienza; che è sbattuto
di nuovo in galera ma è infine circondato da amici come in un finale
alla Frank Capra, perché ha nascosto a ragion veduta il testamento
della vecchia.
Eccetera eccetera, in un
eontinuo gioco di flash-back, di inserti storici, di personaggi
minori di immaginosa e rapida messa a tondo. L'uomo comune Starbuck
(come il Pilgrim di Mattatoio
5) è prigioniero suo malgrado della storia, non riesce a
tenersene fuori perché quella, tra agnizioni e casualità (tutto si
tiene, tutti i personaggi prima o poi si incontrano tra loro,
incrociano i loro destini e Vonnegut commenta: «Figurarsi!», così
come commenta con un «Pace» gli avvenimenti più atroci in cui la
storia si fa carnefice di innocenti) gli è sempre addosso ed esige
una sua partecipazione, sia pure secondaria, sia pure ritrosissima.
La storia non è solo
storia di magnati e politici; essa è soprattutto la storia delle
loro vitti- I me, delle vittime — si sarebbe detto una volta ! ed è
bene continuare a dire — del «sistema»: compaiono nel libro,
ossessione ricorrente e simbolica, Sacco e Vanzetti e le vittime di
un massacro di minatori negli anni dieci, immaginario ma ricostruito
mettendo insieme pezzi di massacri ben reali, di fronte ai loro
carnefici (spesso harvardiani), a Nixon e ai suoi consiglieri, a
giuristi, politici, industriali dai nomi altrettanto reali. (E'
questo un punto di contatto, tra Vonnegut e Kosinski, che per
esempio, in un terribile romanzo che l'editoria italiana ha voluto
ignorare, Blind date, fa comparire come personaggi Jacques
Monod, Charles Lindbergh, Sharon Tate, ecc. ecc. mentre che oscilla
autobiograficamente tra descrizione spietata della società
«socialista» e degli Usa: ma Kosinski è in definitiva un cinico,
Vonnegut un «buono»).
Da quest'altalena di
reale e immaginato, da questa satira stridente e assai spesso
esilarante (si ride molto leggendo Vonnegut), esce un'America assai
più veritiera di quella dei romanzieri sociologizzati e psicologici,
e esce, come ovvio, una morale. Banale, forse, e minima ma l'unica
che Vonnegut, da inveterato idealista nonostante tutto, si sente di
poter esprimere. È quella di un sindacalista dell'epoca eroica
(harvardiano anche lui) che risponde a chi gli chiede in sede di
processo perché si è messo a fare il minatore e a organizzare i
suoi compagni; quella stessa che Starbuck fa sua rispondendo in sede
di processo al giovane Nixon che gli chiede perché negli anni trenta
è stato comunista: «Per via del Sermone della Montagna, signore».
Nella prefazione,
spiritosa e personale e già pienamente «romanzesca», Vonnegut
riferisce della lettera di uno studente che ha analizzato i suoi
romanzi. «Crede di aver colto l'idea che ne costituisce il nucleo,
il fulcro; è disposto ad enunciarla con parole sue proprie, in
questo modo: L'amore può fallire, ma la gentilezza infine prevarrà»
commenta Vonnegut: «A me questo sembra vero e completo». È poco?
Si tratterebbe però di sapere chi oggi riesce a dire e proporre
molto di più.
il manifesto, 28 gennaio 1981
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