Marguerite
Yourcenar, scrittrice franco-belga, saggista, poetessa, traduttrice
di classici greci e latini, è una donna alquanto eccezionale. La
cosa va detta sia perché le donne eccezionali non è che siano poi
tante, sia perché il successo le è giunto, ohimè, molto tardi,
attorno ai sessantacinque anni, e solo quest’anno è stata eletta
(prima donna!) all’Académie Française. Forse tanto ritardo
perché, da scrittrice di razza, era schiva, saggiamente riservata e
solitaria? Può darsi. Certo è che appare dotata al massimo del
colpo d’occhio individuale verso uomini e cose; inoltre, a leggere
i libri della Yourcenar, fra cui il recente Memorie di Adriano, in
cui lei si misura con l’antico pensatore e protagonista della
storia romana, si sente che l’autrice è anche ben dotata di un
proprio sistema di gravitazione. Ha perciò fatto benissimo l’editore
Einaudi a tradurre i Souvenirs pieux
del 1974, a cui è stato dato il titolo Care memorie,
a prima vista titolo letterale, anche se più pertinente allo spirito
dell’espressione francese e del contenuto del libro sarebbe stato
«Reliquie».
Due ombre secolari
In
apparenza l’opera è un’autobiografia, ma in realtà è qualcosa
di molto più originale anche come genere letterario, perché
l’autrice non ci racconta la storia della sua vita, bensì cerca di
rispondere a una questione che riguarda tutti noi. In parole povere
si domanda: quell’essere che è venuto al mondo il lunedì 8 giugno
del 1903 a Bruxelles, da padre francese e da madre belga, posso
dubitare che sia lo stesso che io chiamo «io»? Certo no, eppure
l’identificazione lascia un senso di irrealtà, per vincere la
quale è indispensabile risalire indietro, tanto tanto indietro, con
sublime pazienza, e raccogliere informazioni su nonni e bisnonni, su
zii e prozii, sugli avi immersi ormai nella Storia di tutti: da così
lontano ciascuno di noi ha origine.
Un
simile tipo di autobiografia non solo è speculare rispetto al genere
letterario, perché va indietro nel tempo invece di andare avanti, ma
in esso l’autrice tenta, con un sorprendente misto di curiosità
storica e artistica, di ricostruire l’avantesto di quel testo che è
ciascuno di noi. Interessante, al proposito, l’insieme di pagine,
non a caso corposo, dedicate ai due fratelli Octave e Rémo Permez
suoi prozii; due artisti, e ormai due ombre secolari, a cui lei si
accorge con stupore di assomigliare in moltissimi comportamenti e in
stati d’animo ricavabili dai loro scritti privati e pubblici:
analoga difficoltà nel risolvere il contrasto fra la ricchezza
felice della vita interiore e quel disastro che gli uomini al plurale
hanno fatto della vita, anche se lei non è giunta a suicidarsi come
Rémo; il fascino continuo, a volte esclusivo, dei classici greci e
latini, soprattutto greci, la lettura delle loro opere sotto gli
alberi! e via di seguito.
Ritrovate
tante affinità fra i due fantasmi e lei negli anni Trenta, commenta:
«Senza saperlo ho rifatto i loro viaggi in un mondo già più
precario e più degradato del loro, ma che oggi, a quarant'anni di
distanza, sembra per contrasto quasi decente e stabile». Suggestiva
la postilla: «Il matrimonio fra consanguinei di Arthur e Mathilde
avvicina a me quelle due ombre, poiché un quarto del mio sangue
viene dalla stessa fonte che la metà del loro».
Presa
dall’intrico dei recuperi familiari, la scrittrice giunge a vette
di pura narrativa senza venir meno alla fedeltà dello storico del
costume e del critico letterario. Si leggano le mirabili pagine sulle
codificazioni della vita borghese di provincia, sulle sue futilità
dolcissime; o le altre in cui all’ironia delle prime si sostituisce
una forza sarcastica e drammatica, come là dove è detto che Cristo
è il pupo del presepio o il crocefisso d’argento e d’oro nel
quale non rimane quasi più nulla del dolore che ci sgomenta nei
crocefissi medievali, mentre i «veri dei sono Pluto, principe dei
forzieri, il dio Termine, signore del catasto, che vigila sui confini
di proprietà, l’inflessibile Priapo, dio segreto delle spose,
legittimamente eretto nell’esercizio delle sue funzioni» e poi
Lucina che regna nelle stanze delle povere puerpere annuali, così
spesso consegnate a Libitina, dea delle sepolture.
Stupende
le descrizioni delle crisi matrimoniali, naturalmente destinate a
restare segrete, fra le cortine dell’alcova, o a dare minuscoli
segni di sé a tavola, dato che anche per i meno buongustai vivere
insieme significa in parte mangiare insieme. Della propria madre
l’autrice scrive che «c’era in lei qualcosa della fata, e niente
è più insopportabile, a giudicare dalle fiabe, che vivere con una
fata».
Quella croce
d’avorio
Solo
per poche pagine la Yourcenar inserisce se stessa in quanto
personaggio della narrazione; e soprattutto si vede neonata, «vecchia
di un’ora» e tuttavia già presa nella rete della vita, di cui
fanno parte le notizie stampate sul giornale di quel mattino,
giacente sulla panca dell’ingresso in quanto la sua nascita ha
tolto a tutti il tempo di leggerlo. E qui la Yourcenar ci fa pensare
al recentissimo libro di Renato e Rosellina Balbi, Lungo viaggio
al centro del cervello; è arrivata per intuito artistico alle
soglie di una modernissima visione scientifica; invece di descrivere
se stessa, simbolicamente descrive la croce d’avorio che pende
dalla culla: «Quella grande massa di vita intelligente, discendente
di una dinastia che risale almeno all’inizio del Pleistocene, è
approdata qui». Parimenti il latte di mucca dato alla bimba offre
l'appiglio a una delle descrizioni più tremende che io abbia letto
dell'egoismo e della crudeltà degli uomini nei riguardi di questa
bestia-nutrice, simbolo animale della vita feconda. Le possibili
morti della vacca sono offerte al lettore quali immagini della sua
potenziale crudeltà affinché egli si senta coinvolto e veda la
storia degli uomini passati come un gioco complesso di cause di cui
lui risente ancora gli effetti. Allo stesso fine è descritto
l’inverno dei poveri: «Nei rigidi inverni si distribuiscono ai
poveri buoni legna e coperte; i poveri cattivi non ricevono nulla».
La
Yourcenar dice di un suo personaggio che è fragile e non è fatto
del materiale che produce i settantenni; ebbene, lei è di questo
materiale, lo si sente in ogni pagina del libro: può dedicarsi ai
giochi di specchi del tempo mantenendo intatto l’acuto spirito di
osservazione, venandolo se mai di ironia o senso parodico delle cose,
mai di patetismo: nemmeno un rigo che denunci debolezza, sempre
pronta a sistemare trappole per fantasmi. Ha le sue predilezioni,
questo sì, e le sue idiosincrasie: detesta le madri perfette perché
sono soffocanti, detesta i sentimenti falsi, buoni o cattivi che
siano, ama «quelle vite che si consumano in un desiderio strano e
irrealizzabile», anche se prevede per esse una tragica fine. Rivela
a volte una stupefacente forza stilistica: le bastano due righe per
situare nella sua vita unica un bisnonno, una prozia, una balia,
visti dall’interno; e questo è essere scrittore.
“la
Repubblica", 24 ottobre 1981
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