23.9.16

La nera signora Deledda (Giulio Cattaneo)

Fra i libri di famiglia negli anni Venti e Trenta era difficile che mancasse almeno un romanzo di Grazia Deledda, Canne al vento o L’incendio nell'oliveto. La Deledda era poco più di un nome, non si sapeva niente o quasi della sua vita, al confronto, non diciamo dell'avventuroso D’Annunzio, ma anche di altri scrittori italiani come Fogazzaro o la Serao. Del resto la biografia della Deledda è molto scarna: il dato più rilevante è la pubblicazione di una cinquantina di libri da Nell’azzurro del 1890 alla postuma Cosima.
Nata a Nuoro nel 1871 da famiglia benestante, studiò irregolarmente, poco e male frequentando i classici italiani e formandosi sulle opere di scrittori contemporanei alla moda. A sedici anni cominciò a pubblicare su giornali sardi e poi su riviste «continentali» attirandosi ingiurie e sarcasmi da parte dei suoi conterranei. Dopo il matrimonio, nel 1900 si stabilì a Roma dove morì il 16 agosto del '36. Dieci anni prima aveva vinto il premio Nobel per il quale era in lizza anche la Serao.
Nell’89 era uscito Mastro don Gesualdo del Verga e nel '94 I Viceré di De Roberto: per una esordiente che aveva cominciato a scrivere dall’adolescenza il più naturale riferimento letterario era rappresentato dal verismo o meglio dal romanzo di ambiente regionale, anche se ormai gli stessi narratori veristi cedevano al «misticismo nevrastenico del secolo agonizzante», riflettendolo in opere vagamente spiritualiste, dalla Serao al De Roberto.
Quanto a D'Annunzio, aveva abbandonato da tempo l’Abruzzo primordiale e selvaggio di Terra vergine e delle Novelle di San Pantaleone per tornarvi più tardi, ma dandogli un colore antico e leggendario, con La figlia di Jorio e La fiaccola sotto il moggio che, secondo Cecchi, possono aver contribuito alla «impostazione» narrativa della Deledda. Per quanto, come osservava ancora Cecchi, il richiamo sia da intendere «con discrezione». La lettura della scrittrice «deve quasi in tutto prescindere da riferimenti culturali e confronti stilistici, che rischierebbero di riuscire esteriori e forzati». «La sua prediletta frequentazione della Bibbia, di Omero, dei romanzieri russi, del Manzoni e del Verga, stanno nella sua esperienza più come un fatto vissuto che come un fatto letterario».

Come veli di lutto
La Deledda nominava D'Annunzio nei suoi romanzi, accennando al suo «mondo incantato e malefico, una plaga dolce e ardente piena di fiori velenosi e di frutti proibiti». Fanno pensare a D’Annunzio le tre sorelle di Canne al vento (1913), assai più rusticali delle Vergini delle rocce con la scena di donna Noemi che cuce sotto il volo delle rondini. L'evoluzione dell'opera della Deledda è tutta interna e da un romanzo come Elias Portolu (1903), che più si colloca sulla scia della narrativa verista, ma ancora al di sotto della letteratura, si arriva ad una lenta ma sempre più scaltrita conquista della letteratura, evidente nella resa di scorci di paese, di interni, di paesaggi, ancora generici in Elias Portolu, ma più tardi di uno scabro e a volte acceso rilievo pittorico, anche se frammisti ad analogie convenzionali.
Quello che può richiamare il D’Annunzio della Figlia di Jorio, sia pure a distanza, è un complesso di mitologia sarda, di saga, di «mondo magico» dove il cristianesimo è radicato su un fondo pagano, pervaso di superstizioni e stregonerie, fra scongiuri e atti rituali da poemi omerici come il versare dal bicchiere «le ultime gocce», «poiché la terra vuole la sua parte in tutte le cose che 1' uomo consuma». «Egli scuoteva il campanello davanti ad ogni porta per avvertire la gente che passava il Signore, i cani abbaiavano e il rumore dei telai cessava: le donne sporgevano la grossa testa dai finestrini e dalle logge di legno, e tutto il paesetto era scosso da un tremito di mistero».
Le storie sono sempre basate sulla tentazione, sul peccato, gli scrupoli e i rimorsi: il giovane innamorato della fidanzata e poi moglie del fratello che finisce per farsi prete ma senza vera purificazione, il prete travolto dalla passione, la zia attratta dal nipote, la donna ricca dal bandito. Contrasti violenti e malintesi in vicende infantili risolte spesso in modo meccanico con un espediente, un ripiego convenzionale.
Caratteristico della Deledda è il colore cupo, nero dei suoi romanzi, lo sguardo funebre che avvolge figure e luoghi. «Sembrava un bimbo, un bimbo morto», «il corsetto ben ripiegato con le maniche distese e i bottoni d’argento abbandonati uno su l'altro, e la tunica anch’essa ben distesa, coi gheroni riuniti, il nastro rosso in fondo, le danno l’idea di una Marianna morta, distesa entro la bara pronta alla sepoltura», «il paese e le valli e i monti, fatti di marmo dalla neve gelata, più bianchi ancora sotto la luce di un cielo pallido, le parvero un grande cimitero», «i rialzi di terreno coperti di puleggio davan l’idea di cadaveri violadei in decomposizione stesi lungo la strada», le rondini passavano come «croci nere», i capelli neri delle donne erano sciolti «come veli di lutto».
Non mancano i paesaggi sereni, i colori, come dice Cecchi, «di campagne bagnate e soleggiate», ma l'illusione è breve e «al cadere della notte anche su di lei il dolore come l’inverno sulla terra rigettava il suo cappuccio nero». Le passioni, descritte nei primi romanzi con una certa enfasi, finiscono per essere rese con più concisa esattezza. Sorprende sempre la ricchezza delle immagini dove a volte si traduce l’intensità di una emozione più che in analisi prolisse: «la serva di zio Remundu, immobile, gialla e ieratica sullo sfondo nero della porta», le donne «alte, sottili, fasciate di orbace coi grembiuli ricamati di geroglifici gialli e verdi e i cappucci di scarlatto, e pareva venissero dà lontano, dall'antico Egitto», «i vecchi già fermi davanti al parapetto dello spiazzo con le punte dei cappucci neri dritte sul cielo rosa dell’orizzonte», la madre «immobile e dura, ferma sulle sue ginocchia», che «pareva vigilasse ¡ingresso della chiesa e la chiesa tutta quanta, pronta a sostenerne anche il crollo, se fosse avvenuto».
Mancava alla Deledda il senso del comico e questo risulta anche più dalle novelle di Chiaroscuro (1912) dove è qualche spunto buffo, ma senza capacità di divertire. I racconti sono in gran parte scadenti con l’eccezione della «Festa del Cristo» e pochissimi altri. Da una scrittura dozzinale, anche in Elias Portolu, la Deledda arrivò ad uno stile, nei momenti migliori, sfumato e «cangiante», sia pure fra imperfezioni e impurità. La sua opera non è comunque un frutto in ritardo sull’albero spoglio del verismo, ma appartiene decisamente al Novecento nella tendenza all’introspezione e ad una prosa liricheggiante e di impressioni immediate. Anche se uscì dalla allucinata e mortuaria Sardegna, l’autrice tornò alla narrativa di ambiente regionale come in Annalena Bilsini (1927) che si svolge in un luogo della Valpadana, raccontando storie di tentazione e di peccato non più irrimediabili e mescolate a vicende fortunate. Con Annalena Bilsini si entra nell’era fascista e lo si mette in evidenza con due richiami favorevoli a Mussolini.

Realtà fiabesca
La Deledda si era formata fra adolescenza e giovinezza sui romanzi di appendice, alternando, «rosei bozzetti» a truculenze da melodramma, aveva sfiorato le esperienze più disparate, la rappresentazione di impianto realistico, ma senza vero interesse sociale, i tremori dell’irrequieto spiritualismo fino alla narrazione fitta di simboli, con involuzioni e recuperi. I suoi romanzi degli anni Venti sono chiaramente contemporanei di quelli di Tozzi anche se privi di elementi comuni: segno che la scrittrice aveva camminato col nuovo secolo. Uno dei suoi caratteri più appariscenti è la disposizione a raccontare a favola vestendo la realtà di apparenze fiabesche: «e sulle quercie nere le foglie gialle scintillavano come monete d'oro».


“la Repubblica”, 13 agosto 1986

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