Fra i libri di famiglia
negli anni Venti e Trenta era difficile che mancasse almeno un
romanzo di Grazia Deledda, Canne al vento o L’incendio
nell'oliveto. La Deledda era poco più di un nome, non si sapeva
niente o quasi della sua vita, al confronto, non diciamo
dell'avventuroso D’Annunzio, ma anche di altri scrittori italiani
come Fogazzaro o la Serao. Del resto la biografia della Deledda è
molto scarna: il dato più rilevante è la pubblicazione di una
cinquantina di libri da Nell’azzurro del 1890 alla postuma
Cosima.
Nata a Nuoro nel 1871 da
famiglia benestante, studiò irregolarmente, poco e male frequentando
i classici italiani e formandosi sulle opere di scrittori
contemporanei alla moda. A sedici anni cominciò a pubblicare su
giornali sardi e poi su riviste «continentali» attirandosi ingiurie
e sarcasmi da parte dei suoi conterranei. Dopo il matrimonio, nel
1900 si stabilì a Roma dove morì il 16 agosto del '36. Dieci anni
prima aveva vinto il premio Nobel per il quale era in lizza anche la
Serao.
Nell’89 era uscito
Mastro don Gesualdo del Verga e nel '94 I Viceré di De
Roberto: per una esordiente che aveva cominciato a scrivere
dall’adolescenza il più naturale riferimento letterario era
rappresentato dal verismo o meglio dal romanzo di ambiente regionale,
anche se ormai gli stessi narratori veristi cedevano al «misticismo
nevrastenico del secolo agonizzante», riflettendolo in opere
vagamente spiritualiste, dalla Serao al De Roberto.
Quanto a D'Annunzio,
aveva abbandonato da tempo l’Abruzzo primordiale e selvaggio di
Terra vergine e delle Novelle di San Pantaleone per
tornarvi più tardi, ma dandogli un colore antico e leggendario, con
La figlia di Jorio e La fiaccola sotto il moggio che,
secondo Cecchi, possono aver contribuito alla «impostazione»
narrativa della Deledda. Per quanto, come osservava ancora Cecchi, il
richiamo sia da intendere «con discrezione». La lettura della
scrittrice «deve quasi in tutto prescindere da riferimenti culturali
e confronti stilistici, che rischierebbero di riuscire esteriori e
forzati». «La sua prediletta frequentazione della Bibbia, di
Omero, dei romanzieri russi, del Manzoni e del Verga, stanno nella
sua esperienza più come un fatto vissuto che come un fatto
letterario».
Come veli di lutto
La Deledda nominava
D'Annunzio nei suoi romanzi, accennando al suo «mondo incantato e
malefico, una plaga dolce e ardente piena di fiori velenosi e di
frutti proibiti». Fanno pensare a D’Annunzio le tre sorelle di
Canne al vento (1913), assai più rusticali delle Vergini
delle rocce con la scena di donna Noemi che cuce sotto il volo
delle rondini. L'evoluzione dell'opera della Deledda è tutta interna
e da un romanzo come Elias Portolu (1903), che più si colloca
sulla scia della narrativa verista, ma ancora al di sotto della
letteratura, si arriva ad una lenta ma sempre più scaltrita
conquista della letteratura, evidente nella resa di scorci di paese,
di interni, di paesaggi, ancora generici in Elias Portolu, ma
più tardi di uno scabro e a volte acceso rilievo pittorico, anche se
frammisti ad analogie convenzionali.
Quello che può
richiamare il D’Annunzio della Figlia di Jorio, sia pure a
distanza, è un complesso di mitologia sarda, di saga, di «mondo
magico» dove il cristianesimo è radicato su un fondo pagano,
pervaso di superstizioni e stregonerie, fra scongiuri e atti rituali
da poemi omerici come il versare dal bicchiere «le ultime gocce»,
«poiché la terra vuole la sua parte in tutte le cose che 1' uomo
consuma». «Egli scuoteva il campanello davanti ad ogni porta per
avvertire la gente che passava il Signore, i cani abbaiavano e il
rumore dei telai cessava: le donne sporgevano la grossa testa dai
finestrini e dalle logge di legno, e tutto il paesetto era scosso da
un tremito di mistero».
Le storie sono sempre
basate sulla tentazione, sul peccato, gli scrupoli e i rimorsi: il
giovane innamorato della fidanzata e poi moglie del fratello che
finisce per farsi prete ma senza vera purificazione, il prete
travolto dalla passione, la zia attratta dal nipote, la donna ricca
dal bandito. Contrasti violenti e malintesi in vicende infantili
risolte spesso in modo meccanico con un espediente, un ripiego
convenzionale.
Caratteristico della
Deledda è il colore cupo, nero dei suoi romanzi, lo sguardo funebre
che avvolge figure e luoghi. «Sembrava un bimbo, un bimbo morto»,
«il corsetto ben ripiegato con le maniche distese e i bottoni
d’argento abbandonati uno su l'altro, e la tunica anch’essa ben
distesa, coi gheroni riuniti, il nastro rosso in fondo, le danno
l’idea di una Marianna morta, distesa entro la bara pronta alla
sepoltura», «il paese e le valli e i monti, fatti di marmo dalla
neve gelata, più bianchi ancora sotto la luce di un cielo pallido,
le parvero un grande cimitero», «i rialzi di terreno coperti di
puleggio davan l’idea di cadaveri violadei in decomposizione stesi
lungo la strada», le rondini passavano come «croci nere», i
capelli neri delle donne erano sciolti «come veli di lutto».
Non mancano i paesaggi
sereni, i colori, come dice Cecchi, «di campagne bagnate e
soleggiate», ma l'illusione è breve e «al cadere della notte anche
su di lei il dolore come l’inverno sulla terra rigettava il suo
cappuccio nero». Le passioni, descritte nei primi romanzi con una
certa enfasi, finiscono per essere rese con più concisa esattezza.
Sorprende sempre la ricchezza delle immagini dove a volte si traduce
l’intensità di una emozione più che in analisi prolisse: «la
serva di zio Remundu, immobile, gialla e ieratica sullo sfondo nero
della porta», le donne «alte, sottili, fasciate di orbace coi
grembiuli ricamati di geroglifici gialli e verdi e i cappucci di
scarlatto, e pareva venissero dà lontano, dall'antico Egitto», «i
vecchi già fermi davanti al parapetto dello spiazzo con le punte dei
cappucci neri dritte sul cielo rosa dell’orizzonte», la madre
«immobile e dura, ferma sulle sue ginocchia», che «pareva
vigilasse ¡ingresso della chiesa e la chiesa tutta quanta, pronta a
sostenerne anche il crollo, se fosse avvenuto».
Mancava alla Deledda il
senso del comico e questo risulta anche più dalle novelle di
Chiaroscuro (1912) dove è qualche spunto buffo, ma senza
capacità di divertire. I racconti sono in gran parte scadenti con
l’eccezione della «Festa del Cristo» e pochissimi altri. Da una
scrittura dozzinale, anche in Elias Portolu, la Deledda arrivò
ad uno stile, nei momenti migliori, sfumato e «cangiante», sia pure
fra imperfezioni e impurità. La sua opera non è comunque un frutto
in ritardo sull’albero spoglio del verismo, ma appartiene
decisamente al Novecento nella tendenza all’introspezione e ad una
prosa liricheggiante e di impressioni immediate. Anche se uscì dalla
allucinata e mortuaria Sardegna, l’autrice tornò alla narrativa di
ambiente regionale come in Annalena Bilsini (1927) che si
svolge in un luogo della Valpadana, raccontando storie di tentazione
e di peccato non più irrimediabili e mescolate a vicende fortunate.
Con Annalena Bilsini si entra nell’era fascista e lo si mette in
evidenza con due richiami favorevoli a Mussolini.
Realtà fiabesca
La Deledda si era formata
fra adolescenza e giovinezza sui romanzi di appendice, alternando,
«rosei bozzetti» a truculenze da melodramma, aveva sfiorato le
esperienze più disparate, la rappresentazione di impianto
realistico, ma senza vero interesse sociale, i tremori
dell’irrequieto spiritualismo fino alla narrazione fitta di
simboli, con involuzioni e recuperi. I suoi romanzi degli anni Venti
sono chiaramente contemporanei di quelli di Tozzi anche se privi di
elementi comuni: segno che la scrittrice aveva camminato col nuovo
secolo. Uno dei suoi caratteri più appariscenti è la disposizione a
raccontare a favola vestendo la realtà di apparenze fiabesche: «e
sulle quercie nere le foglie gialle scintillavano come monete d'oro».
“la Repubblica”, 13
agosto 1986
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