La
domenica precedente il periodo dell'astinenza quaresimale, si svolge
a Roma una festa che ha lo scopo di preparare l 'anima a «ricevere
degnamente il corpo del Signore a Pasqua». Cavalieri e fanti
dell’esercito si recano al Testaccio (monte sul quale è tradizione
che sia stata fondata la città) e — in presenza del papa, perché
non avvengano disordini — uccidono diversi animali: l’orso
simbolo del diavolo tentatore della carne, i giovenchi simbolo della
superbia che si nasconde nei piaceri, e il gallo simbolo della
lussuria. C’è una prima testimonianza scritta di questa festa che,
almeno nel nome, aveva un rapporto col Carnevale («carnem levare»,
lasciare la carne): il «Ludus Carnelevarii» di Benedetto Canonico
del 1143. Si tratta in sostanza di un’austera cerimonia religiosa,
in cui la parola «ludus» viene medievalmente adoperata sia nel
senso di giochi competitivi, sia in quello di rappresentazioni sacre.
Con l’andare del tempo, naturalmente, e nel quadro delle vicende
del Comune di Roma, che rivendica la laicità della festa contro il
potere papale, il rituale carnevalesco si forma e gradualmente si
trasforma.
Studiare
questa storia su una folta serie di documenti, scritti e visivi,
lungo un arco di tempo che va dal dodicesimo secolo alla fíne del
sedicesimo, è stato l’impegno di Beatrice Premoli che, in un
volume da poco uscito, non solo ha pubblicato, tradotto e sistemato
in accurato ordine cronologico le testimonianze raccolte, ma le ha
anche corredate di preziose annotazioni, per spiegare il non facile
rapporto che passa tra l'eredità classica, le vicende politiche e i
nuovi simboli e significati dell’immaginario collettivo così come
essi si esprimono in un tipo di manifestazioni di cui Roma sembra
essere la sede più antica (Beatrice Premoli, Ludus
Carnelevarii, Guidotti).
Il
sorgere del Comune, la figura di Arnaldo da Brescia che si oppone al
potere temporale della Chiesa, l’insorgere della nobiltà, l’arrivo
di Ludovico il Bavaro che elegge un nuovo papa a lui favorevole, la
sottomissione del Comune al pontefice, il breve sogno di grandezza di
Cola di Rienzo, il cardinale Albornoz, l’esilio avignonese e il
consolidamento del dominio ecclesiastico al tempo di Bonifacio IX,
sono tra gli accadimenti che caratterizzano il primo periodo preso in
esame. Vi appartengono documenti che riguardano l’obbligo, da parte
della città di Toscanella, di mandare otto giocatori per i ludi
romani, il denaro che i giudei solevano dare in queste occasioni e la
descrizione del monte Testacium:
monte di cocci, formato dai vasi che contenevano i tributi dei popoli
sottomessi a Roma, dove «delectatio nostri corporis habeat
finem».
Tra
i giuochi, hanno la precedenza quelli con l’anello (una giostra
durante la quale i cavalieri dovevano infilare la lancia in un anello
sospeso); seguono i palii dei cavalli e delle giumente; infine si
fanno precipitare dalla collina le carrette in cui sono stati posti
due porci e due giovenchi.
Dopo
la metà del Quattrocento (altro documento), Paolo II decise un
ampliamento del Carnevale. Volle corse per giovani, vecchi, bambini,
ebrei, asini e bufali; inoltre fece allestire un trionfo. Anche le
corse dei «barberi», già a Testaccio, si svolsero nella via Lata,
che da allora si chiamò Corso. Nel 1499 si ha per la prima volta la
proibizione delle maschere (che esprimevano, da parte del popolo «la
beffarda negazione dell'ordine costituito»). Ai primi del
Cinquecento: giostra del Saracino in piazza San Pietro e albero della
Cuccagna; festeggiamenti per le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso
di Ferrara e, in Agone (piazza Navona), sfilata di carri che
rappresentano i trionfi di Cesare, Ercole, Scipione, Carlo Emilio:
«diversi temi encomiastici e propagandistici», osserva la Premoli a
proposito dei trionfi, «trovarono una prima realizzazione nella
cartapesta dei carri».
Dopo
il Sacco di Roma, compiuto dai lanzichenecchi di Carlo V nel 1527,
Roma piomba in condizioni drammatiche: tumulti, miseria, mendicanti,
vagabondi, gabelle, paura. Le feste carnevalesche riprenderanno nove
anni dopo, per riacquistare, nel 1545, un fasto particolarmente
grandioso.
Nel
suo libro la Premoli ha affrontato un tale intrico di avvenimenti
storici (e quindi riassuntivi, seppur in maniera molto complessa, di
un andirvieni di weltanschauung)
con un ben meditato ordine e ritmo di lettura: profilo storico,
documenti, traduzioni, annotazioni. Certamente difficile da seguire,
ma tale da far emergere alcuni punti precisi, quasi insospettati
momenti di illuminazione che lampeggiano in un secondo tempo.
Per
esempio: lo stesso stile latino del primo documento («in
dominica dimissionis carnium...»)
o di quell’antico italiano (prima dei giochi «omne caporione
faceva annare lo suo toro incoronato per lo rione»), o un altro modo
di chiamare — «festa carnisprivii»
— il Carnevale; e il carro di Eros inteso, platonicamente, come
divinità che adombra l’armonia cosmica; e una descrizione della
danza della Moresca (che, fin dal IX secolo, allegorizza un
combattimento tra mori e cristiani); infine le maschere («habentes
nasos longos et grossos in forma priaporum»),
i buffoni (il celebre Andrea vestito da donna che recita il Lamento
della cortigiana ferrarese e
viene preso a bastonate dalle cortigiane di Roma), gli zingari, le
commedie recitate di notte nelle stanze del papa, le ghiottonerie, le
fontane che gettano vino, e una vasca di maccheroni dove le maschere
«buttomo dentro molti contadini», il grigiore delle feste nei
periodi di magra, il rimpianto del Carnevale: «correre palii,
commedie, veglie, et puttane in volta a piè e a cavallo... del
mangiare non te ne parlo...».
Non
poi tanto lontano, questo lamento nostalgico, da quello che,
presumibilmente, provavano i nostri nonni («Carnevale, non te n
andare...») bambini a loro volta, ma non certo simili a quelli che
ancora si vedono sui marciapiedi di via Nazionale a lanciare
timidamente coriandoli, incipriati e intristiti dalle mamme che li
vestono da damine del Settecento.
Alle
molte immagini, pitture, miniature, incisioni, che illustrano il
libro e che sono esposte in due mostre — «Ludus Camelevarii» e
«La Moresca» — aperte al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni
popolari (piazza Marconi 8) fino al 31 marzo, si aggiungono le
incisioni e i disegni della stessa autrice. Con questi, Beatrice
Premoli, che ha buona mano e conoscenza tecnica, ha aiutato i
visitatori a superare certe difficoltà di interpretazione degli
originali.
“la
Repubblica”, ritaglio senza indicazione di data, ma 1981
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