Il quadro generale della
situazione italiana nel primo quinquennio degli anni sessanta
dovrebbe già di per sé rendere evidenti sia le occasioni sia le
difficoltà che il Pci si trovava davanti. In quel contesto si
allargava infatti per il partito lo spazio come forza di opposizione
sociale e politica, e anche per conquistare una relativa egemonia
culturale. Per occuparlo, esso era attrezzato; non solo per lunga
tradizione ma anche per recenti aggiornamenti. Anziché contrastare
infatti con acribia propagandistica il nuovo cordone sanitario, che
si tentava di costruirgli intorno con il mito del benessere ormai a
portata di mano, il Pci lo contrastò nella società con la ripresa
di lotte operaie unitarie e vincenti, con il rilancio
dell’antifascismo militante, della lotta antimperialista e del tema
della pace, infine con un nuovo interesse e una rilettura verso ciò
che avveniva nel mondo cattolico (al di là della Democrazia
cristiana). Anche sul terreno specificatamente politico, Togliatti
anziché gridare al «tradimento» dei socialisti, segnalò i rischi
e le velleità che quell’operazione comportava, ma anche
l’interesse per i propositi riformatori che dichiarava, riservando
un giudizio alla prova dei fatti. Il balzo in avanti che realizzò,
unico in Europa, nelle elezioni del 1963 (cui si accompagnavano una
flessione socialista e un forte arretramento della Dc) premiò e
misurò questa opposizione efficace. La prima mano della partita
sembrava vinta.
Che c’era allora da
discutere e su cui dividersi? E invece da discutere c’era molto.
Dire che c’era un problema di strategia irrisolto e ineludibile
sarebbe, più che eccessivo, inesatto. La «via democratica» era già
stata delineata con la svolta di Salerno, era sopravvissuta alla
stretta del Cominform e alla guerra fredda, era stata confermata e
chiarita all’VIII congresso. Ma proprio da lì veniva in evidenza
un vuoto, perché la svolta di Salerno doveva il suo valore al fatto
che, oltre che un’affermazione di principio, era stata una
politica. Era cioè collegata a una situazione storicamente
determinata, accettava rischi e riconosceva confini. Comportava
perciò scelte precise e priorità di obiettivi, alleanze
praticabili: la promozione di una resistenza armata, l’unità in
essa dell’antifascismo, la Costituzione e la Repubblica, una
collocazione internazionale.
Ora, in un’economia
trasformata, in un nuovo ordine mondiale, con nuovi soggetti sociali
in campo, in una crisi generale degli equilibri politici, non bastava
riaffermare dei princìpi, né accrescere le proprie forze sull’onda
di un conflitto sociale, né profittare delle difficoltà
dell’avversario per acquisire nuovi elettori. Anzi, quanto più
tale opposizione si affermava, tanto più diventava necessario
valutare la nuova fase, e definire programmi, alleanze politiche e
sociali, forme organizzative adeguate per offrirle uno sbocco.
Attuare la Costituzione? Certo, ma un po’ vago.
L’esigenza di un
ripensamento di fondo non era del resto avvertita solo dalla sinistra
italiana. In tutta Europa era in atto, bene o male, un acceso
dibattito. In alcuni grandi partiti socialdemocratici: Brandt e il
nuovo programma di Bad Godesberg nella Spd tedesca; Crosland e
Gaitskell (il «nuovo labour» in prima edizione) in Inghilterra;
l’ascesa di Palme in Svezia e di Kreisky in Austria. Ma, in modo
tormentato, anche in alcuni partiti comunisti qualcosa si muoveva: in
Francia la contesa tra il vertice del Pcf e il dissenso dei giovani e
di molti intellettuali (chiamati gli italianisants), che si concluse
con molte espulsioni o abbandoni, costrinse comunque a riannodare il
filo della «unità della gauche»; nel partito spagnolo la rottura
di Carrillo con Claudin e Semprun. Ancor più nella sinistra
intellettuale, al di qua e al di là dell’atlantico: Sweezy, Baran,
Galbraith, Marcuse, Wright-Mills, Friedman, Braverman, Strachey,
Thompson e la «New Left», Mallet, Touraine, Sartre, Gorz, con Les
Temps Modernes, e tanti altri. Si discuteva delle novità anche nel e
sul Terzo mondo: da Fanon ai teorici del neocolonialismo della
dipendenza, della polarizzazione (Samir Amin, Gunder Frank). Analisi
e risposte sarebbero state molto divergenti, spesso opposte, ma il
tema era comune: che interpretazione dare del neocapitalismo, e come
rispondervi?
Perciò quando parlo di
«caso italiano» non intendo affatto un’anomalia - perché più
che mai l’Italia era ormai parte di un processo mondiale - ma una
specificità di enorme interesse per tutti. Soprattutto in Italia,
infatti, il neocapitalismo si presentava con un intreccio molto
stretto e reciproco tra modernizzazione e arretratezza, che si
sarebbe manifestato, in modo ancor più complesso ed esplosivo,
nell’ultima parte del decennio. Quella casuale contemporaneità di
fenomeni, che altrove si erano affermati in sequenza temporale, aveva
all’inizio permesso il decollo, più tardi poteva facilitare una
modernizzazione perversa e una triste americanizzazione, in una fase
di trapasso convergeva in destabilizzazione e crisi. Qui più che
altrove dunque si presentava la necessità e forse la possibilità di
definire una nuova prospettiva, di medio periodo, che non fosse un
adeguamento subalterno all’andamento delle cose. Di questo c’era
da discutere nel Pci. E si discusse, bene o male, ma con grande
passione e vivacità.
Il primo consiglio che la
memoria mi dà al riguardo è un consiglio di prudenza. Ricostruire
quella discussione, chiarirne i contenuti, individuare le diverse
forze che vi parteciparono, valutarne l’approdo e le conseguenze, è
compito delicato. Comprimere infatti, entro schemi semplificati e
tempi raccorciati un dibattito, che invece fu un processo lungo,
complesso, coinvolse tante personalità e migliaia di militanti,
anziché aiutare a coglierne la sostanza, ne riduce l’importanza e
amputa tutto ciò che emerse in modo confuso ma che col tempo si
sarebbe dimostrato preveggente e prezioso.
Dico processo, per molte
ragioni. La discussione infatti, diventata poi lotta politica, si
sviluppò, nel corso di cinque anni cruciali, gradualmente,
attraverso molte fasi: perché non aveva alle spalle schieramenti già
definiti in partenza, al contrario nacque dalla convergenza
progressiva, e mai compiuta, di esperienze e culture molteplici;
perché a lungo si sviluppò sul terreno della ricerca e
dell’analisi, più che su quello di una divergenza politica
consapevole; perché su molti nodi importanti le posizioni di
ciascuno evolvevano, i raggruppamenti erano mutevoli, e le leadership
erano semplici punti di riferimento, non comportavano alcuna fedeltà;
perché il confronto interno al partito era intrecciato con quello
che si svolgeva ai suoi margini o, fuori di lui, in una più vasta
sinistra (dai "Quaderni Rossi" alla "Rivista Trimestrale"), perché,
infine, l’unità del partito non era solo un vincolo da rispettare,
ma un valore largamente introiettato.
Due momenti importanti,
utili a datare l’inizio e poi la fine di quella fase, possono dare
un’idea del carattere inizialmente aperto e mobile di quel
confronto, della sua schiettezza. La riunione del Comitato centrale
del 1961 discusse il rapporto di Togliatti che tornava dal XXII
congresso del Pcus, in cui Chruscèv aveva riproposto, con ulteriore
asprezza, le accuse retrospettive allo stalinismo, probabilmente per
reagire o per prevenire una restaurazione strisciante di vecchi modi
di pensare e di gestire il potere. Togliatti era del tutto ostile a
quella proposta, non perché ignorasse l’esigenza di un
rinnovamento, sia in Urss sia nel Pci, ma perché considerava inutile
e fuorviante rilanciarlo con una nuova replica del Rapporto segreto.
Ma dapprima, anziché proporre un altro tipo di sforzo innovativo,
evitò di nuovo di parlare del punto più scottante del congresso cui
aveva assistito e di cui tutti parlavano. Gran parte del Comitato
centrale mostrò subito disagio e irritazione: non si voleva
ricominciare a discutere delle colpe di Stalin, ma non si sopportava
più quel metodo dell’autocensura, si voleva discutere più
francamente del modello sovietico e soprattutto si voleva fare, più
coraggiosamente, il punto sul rinnovamento del Pci. Per la prima
volta, quel disagio si espresse in una critica esplicita cui
partecipavano anche membri del gruppo dirigente. Aldo Natoli, isolato
ma autorevole, propose addirittura la convocazione di un congresso
straordinario. Ma fu Giorgio Amendola a prendere la testa del
dissenso, sostenuto da Pajetta e da Alicata. Togliatti si irrigidì e
minacciò uno scontro aperto. Le sue conclusioni polemiche non furono
né votate né pubblicate, successivamente vennero sostituite da un
documento collettivo di tutt’altro tono. Togliatti non solo lo
subì, ma ne accettò l’ispirazione, tanto che da quel momento
prese parte attiva, e vistosa, a una riflessione innovativa,
pubblicando un saggio sulla formazione del gruppo dirigente del Pci
negli anni venti, in cui rovesciava tanta parte delle versioni
canoniche e mistificanti del passato, e pubblicando su “Rinascita”
l’intero e polemico carteggio, del 1926, tra Gramsci e lui, mai
riconosciuto vero e ora proposto in forma integrale. Il diritto a
quel tipo di riflessione spregiudicata sulla tradizione non restò
riservato solo a lui o ai massimi dirigenti. Seguì più tardi un
confronto aperto sull’esperienza dei fronti popolari (se
recuperarla come modello o riconoscerne i limiti) tra Emilio Sereni,
uno dei capi storici, e un signor nessuno come me, sulle pagine di
Critica Marxista. E più tardi in un volume ufficiale sulla teoria
del partito mi fu consentito di sostenere che nel leninismo vi fosse
qualche punta di giacobinismo di troppo, ottenendo qualche rabbuffo
ma anche molti elogi. Aggiungo un particolare sulla vicenda di quel
burrascoso Comitato centrale, di cui mi sono accorto solo di recente
nelle scorribande cui sono costretto tra i vari testi.
Nell’intervento di Amendola era contenuto, e fu poi pubblicato, un
passo nel quale chiedeva il diritto per tutti alla pubblicità del
dissenso e l’utilità che si formassero, non correnti organizzate,
ma maggioranze e minoranze sui temi più importanti. E lo fece con
parole quasi letteralmente identiche a quelle per le quali, quattro
anni dopo, all’XI congresso fu crocefisso Ingrao.
Un secondo esempio di
confronto politico non ancora irrigidito, ma ormai aspro, è del
1965. Era convocata un’importante conferenza operaia nazionale.
Barca doveva tenere la relazione introduttiva come responsabile della
commissione di massa. Per impostare quell’Assemblea, si convocò un
seminario ristretto a Frattocchie: partecipavano Amendola, Reichlin,
Trentin, Garavini, Minucci, Scheda, Pugno, oltre allo stesso Barca, a
me e qualche altro. L’ordine del giorno era impegnativo, perché si
discuteva non della situazione sindacale contingente, ma del peso e
del significato da assegnare alla classe operaia, e alle sue nuove
lotte, in relazione alla crisi economica che si profilava e più in
generale nella strategia del partito, molti temi vi erano connessi e
intorno a essi si era già sviluppata una discussione accesa. La
discriminante principale si collocava tra chi considerava quelle
lotte, non solo per la loro ampiezza ma per la qualità dei loro
obiettivi e della loro forma, asse fondamentale su cui costruire
un’egemonia politica e sociale, ed embrioni di una democrazia più
partecipata dentro e fuori la fabbrica; e chi invece le considerava
tradizionalmente come una delle molteplici spinte rivendicative che
emergevano nella società per le sue arretratezze e che, sommandosi,
potevano produrre un nuovo rapporto di forza sul terreno
politico-istituzionale. Da una parte e dall’altra vi erano accenti
e priorità diverse, per così dire trasversali: per empio, c’era
chi attribuiva maggiore importanza all’azione diretta in fabbrica,
chi sottolineava il nesso reciproco tra la lotta in fabbrica e una
svolta di politica economica, e per questo attribuiva importanza al
ruolo de1 partito, e chi segnalava la necessità di estendere le
nuove forme di lotta a regioni e soggetti sociali ancora arretrati ma
ormai trasformati, soprattutto nel Mezzogiorno. Amendola però,
sentendosi in minoranza in quel cenacolo, non andava tanto per il
sottile. Ciò che lo preoccupava era la tendenza complessiva in
direzione di una politica troppo centrata sul conflitto di classe,
cosa che a suo avviso poteva restringere il fronte delle alleanze,
sviare l’attenzione dalle rivendicazioni immediate e sottovalutare
nel contempo l’azione parlamentare e i rapporti tra le forze
politiche. Dunque la deviazione potenziale dalla classica «via
italiana». Se lo interpreto bene: il pericolo di un rigurgito di
«ordinovismo» e al tempo stesso una rigidità nei programmi che li
rendeva interessanti ma astratti. Criticò duramente quindi l’insieme
del seminario e riportò la questione alla Direzione del partito,
dove chiese e ottenne la convocazione del Comitato centrale al fine
di impegnare non più la solita «lotta sui due fronti», ma di porre
un argine chiaro a una pericolosa «tendenza di sinistra». Longo fu
incaricato, con tale mandato, di introdurlo. Ma, secondo costume,
commissionò ad alcuni compagni dell’apparato centrale materiali
per preparare la sua relazione. Io assolsi il mio compito
riproponendo in modo più ragionevole le mie convinzioni, in
particolare sul tema di una politica economica coerente con le lotte
di massa. Era solo un contributo, seppure di tredici pagine, ma
Longo, uomo immune dal pregiudizio, le trovò convincenti e ne inserì
gran parte nel proprio Rapporto. Niente di speciale, se non il fatto
che la «lotta su di un solo fronte» per il momento risultò
sospesa. Chi conosceva tutta la vicenda del seminario di Frattocchie
restò sorpreso, gli altri no. Amendola, sulla porta del Comitato
centrale mi fermò e mi disse paro paro: non credere che non mi sia
accorto di cosa hai fatto, non lo dimenticherò. Barca fu quindi
confermato relatore alla Conferenza di Genova, moderò un po’ i
termini ma mantenne la propria bussola, per questo Amendola lo
criticò nelle conclusioni ma fu a sua volta criticato in Direzione
da Ingrao, da Reichlin e da altri. Fu però una vittoria di Pirro
perché proprio da quel momento la discussione politica assunse i
caratteri di una lotta esplicita tra due orientamenti.
Ho insistito, con esempi
concreti, sconosciuti o dimenticati, sul carattere aperto e
fluttuante che il confronto mantenne a lungo, non per offrire una
«faccia bonaria» della vita interna del Pci, che oggi al contrario
viene presentato come una caserma. Ma perché, a distanza di anni, mi
pare utile pormi un interrogativo che ho sempre eluso in me stesso:
era fatale che, pur prendendo la forma di orientamenti diversi, ma
non irrigiditi in fazioni, quei dissensi non potessero dar luogo a un
pluralismo responsabile, e dovessero invece precipitare in uno
scontro intollerante, a volte in meschine ostilità personali?
Da Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, Il Saggiatore, 2009
Da Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, Il Saggiatore, 2009
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