26.9.16

Karen Blixen. Quando Ulisse diventa Omero (Nadia Fusini)

Dovremmo leggere io credo questo Isak Dinesen. La vita di Karen Blixen (di Judith Thurman, pubblicato da Feltrinelli) come l’ultima storia che Isak Dinesen - la conteuse ci racconta. L’ottava storia gotica, il più invernale dei racconti d’inverno, l’estremo dei capricci del destino, o l’ultimo degli ultimi racconti — questa storia, perché potesse essere raccontata, bisognava che la morte finisse la vita, che il filo (del racconto, della vita) fosse troncato e Sheherazade venisse alla fine sconfitta, e lasciasse la parola al sultano. Tuttavia il supremo dei sultani (la morte) non viene: perché non si spegne la voce. Come in quel casi straordinari, quando la testa recisa dal tronco rotolando da sotto la mannaia continua pur sempre le sue smorfie — cosi la voce di Isak Dinesen continua a narrare attraverso parole che le presta Thurman.
Bell’esemplo di autobiografia, questo libro stringe insieme necessariamente (perché così fu per questa scrittrice) la vita e l’opera; sì che l’opera è qui in verità sempre in primo piano, e la vita ne è semplicemente il supporto. Quell’opera ebbe bisogno di quella vita: ecco perché La vita di Karen Blixen importa a chi ami Isak Dinesen.
Delle sue storie e racconti la vita di Karen Blixen ha l’essenziale: lo stesso andamento «capriccioso» e insieme necessario, al cui sviluppo presiede una forza anonima, divina — in questo caso le tre terribili dee, le Parche.
Se l’arte del racconto è divina e il racconto sboccia solo laddove la trama che lo scrittore inizia incontra la trama degli dei — secondo quanto afferma il narratore Isak (nome maschile che Karen Blixen si dette quando appunto iniziò a narrare) — ecce perché la vita di Karen Blixen è, in senso proprio, il suo racconto più grande, perché in esso tutto è effettivamente in mano a una volontà che supera l’io mortale che vive e racconta; tutto fa parte di quel testo anonimo che per l’uomo trama il Fato, il cui atto iniziale e finale è fuori della sua portata. Sì che il racconto (e la vita: il racconto della vita) inizia e si conclude fuori di lui: o quando egli è ancora, o già, nel fuori del suo cerchio. O piuttosto in esso, ma come presenza muta: nel silenzio dell’infanzia, o della morte.
All’uomo e al suo racconto spetta in senso proprio solo l’intermezzo: quegli atti della commedia tra il secondo e il quarto in cui, nel percorso di un cammino iniziato da Cloto, e che sarà Atropo a finire, l’uomo si fa protagonista: eroe che porta la vita come la propria passione o peripateia. L’azione che l’uomo compie è essenzialmente l’eroismo con cui «sceglie» ciò che gli è stato «assegnato»: e di quella sorte (o porzione che gli è stata accordata) fa il passo che dà il via alla danza. Poiché ogni racconto per il narratore Isacco è la ripetizione di questo schema cosmogonico; e poiché ogni racconto è, in questo senso essenziale, il racconto della vita (dove con quel genitivo si intenda un possesso che è la vita al suo neutro a possedere); si capirà da ciò come la storia della vita di Karen Blixen sia per l’appunto il racconto perfetto di Isak Dinesen.
Racconto che Karen naturalmente non può narrare in prima persona, perché la morte le ha tolto la parola, quando è venuta a sorprenderla e l’ha trovata (come il leone di cui racconta ne La mia Africa) «arrogantemente perfetta, elegante fino all’osso».
Ma se la Morte le toglie le parole per narrarla, lei tuttavia questa storia l’ha già raccontata; essa si è venuta disegnando nella trama che gli eventi hanno tessuto Intorno a lei: e che lei, assumendoli, ha firmato con i suoi diversi nomi: Karen, Tanne, Tania, baronessa Blixen. In questo senso allegorica è la sua vita (come quella di ogni uomo, del resto) perché costruzione che affaccia fondamentalmente su questo significato: che in ogni esistenza si inscrive un destino, in ogni vita si ritaglia un portamento — un modo di portare la vita, come si dice di un abito.
Quel portamento, risultato di un gesto di conferma o di rifiuto di ciò che il destino ha portato, è il segno più proprio dell’equivoco umano; l’unico segno, il più rivelatore, di quell’impossibilità logica di cui l’uomo fa il suo pane quotidiano: ovvero il suo doversi fare soggetto e padrone, protagonista ed eroe di ciò che gli accade — essendo ciò che gli accade precisamente ciò che non ha scelto. In questo equivoco si situa l’avventura umana; e in quanto portatrice di questo equivoco ogni vita è allegorica: perché ogni vita porta su questo segreto, e a questa domanda.
La domanda è: come quell’uomo (quella esistenza) si è impadronito della vita? come l’ha fatta propria? come è arrivato a firmarla con il proprio nome? A questa domanda la baronessa Blixen risponde con il motto che guidò da un certo punto in poi, la sua vita: je responderais. Che vuol dire: io ne risponderò; o più letteralmente, io mi farò respons-abile, abile alla risposta; e di quello che accade ne porterò il peso, assumendolo come ciò a cui devo rispondere. Forma paradossale di moralità, moralità di «spiriti liberi», questa: che non risponde né a Dio, né alla società. Ma elabora piuttosto un codice alla Hemingway, del cacciatore e del torero. E non a caso questi «spiriti liberi» (Karen Blixen; e il marito Bror, amico di Hemingway che ne fece il ritratto in quello stupendo racconto Breve è la vita felice di Francis Macomber; e l’amante Denys Finch-Hatton, da cui Karen - Tania riprese il motto) hanno bisogno di un orizzonte libero; e vanno in Africa. Lì, in disparte, inattuali, vivendo (e scrivendo, nel caso della Blixen), come se il novecento non fosse accaduto, tuttavia del loro secolo interpretando un tratto fondamentale — che solo coloro che non furono a casa nel loro tempo (come finemente interpreta la Stein) poterono sentire — e cioè che l’evento centrale, con cui gli uomini di questo secolo avrebbero prima o poi dovuto fare i conti, era la perdita. Per loro non invano era stata pronunciata la morte di Dio. La gaya scienza di cui dovettero far tesoro era precisamente questo sapere; non c’era più un padre, né una patria, né un principio a cui rispondere. Il mondo aristocratico del padri e degli dei era morto: la morale dell’uomo comune avrebbe (o aveva già?) vinto.
In termini personali, questo fu il problema della Blixen. I racconti che in tarda età (come Sara partorisce Isacco) lei scrive (di qui il nome Isak che Karen si sceglie) sono la sua gaya scienza. Gaya è la tonalità di questa conoscenza (che è propriamente conoscenza del dolore della perdita: perdita, in ordine di importanza per lei, dell’Africa, dell’amante, del figlio mai nato, del marito), perché dopotutto Karen è della razza del conquistatori: dei politropoi, che astuti, versatili, maliziosi, troppo conoscono e hanno conosciuto per ripiegare verso li lamento, o la malinconia.
Con la Blixen è come se straordinariamente Ulisse si trasformasse In Omero; o forse è proprio questo il narratore? colui che avendo molto viaggiato e di molte cose avendo fatto esperienza, molte storie può raccontare? Questa metànoia del viaggiatore in narratore è precisamente ciò che accade alla Blixen; metànoia che ella celebra con il nuovo battesimo all’età di oltre quarant’anni. Nasce così nel 1934 Isak Blixen con durezza estrema, sì che pieni di lacrime furono piuttosto i suoi giorni; e Dinesen — il nome del padre (come lei scrittore e viaggiatore), di cui Karen fu la preferita e la prescelta — ne portò con coraggio in eredità almeno due castighi: l’inquietudine, e la sifilide.
Non che nel suoi racconti, naturalmente, Isak Dinesen parli della vita di Karen Blixen: non ci si potrebbe immaginare niente di più irrealistico di più inattuale dei romantici scherzi e capricci che alla narratrice piace inventare: niente di più stravagante. Semplicemente, in queste storie, nel loro ricercato disegno, sempre si ritaglia ciò che potremmo chiamare l’essenziale di quella vita.
L’essenziale per Karen Blixen (è questo il racconto che ella affida, come Amleto morente la sua dying voice a Orazio, a Isak Dinesen di tramandare) è che ogni vita è fatta dagli ostacoli che incontra, da come una vita si dispone a scavalcare, aggirare, o soccombere di fronte all’opaca resistenza del reale. È così che un’esistenza si costruisce, e costruendosi fila un tessuto, o testo — le cui maglie sono le parole che diamo ai movimenti che facciamo per aggiustarci, o rifiutarci alla vita stessa, al suo gioco crudele: crudele semplicemente perché in mano a un altro — che non conosciamo, malgrado a volte tentiamo di familiarizzarlo attraverso dei nomi.
Con una consapevolezza tuttavia, che il nostro virtuosismo non è infinito: che non tutto possiamo aggirare, e superare, come il versatile Ulisse: perché in verità (la storia della vita di Karen Blixen lo dimostra), una vita è segnata anche da ciò a cui non può rinunciare.
La storia che Judith Thurman in tale dettaglio, con tale intelligenza, e in modo così esauriente, ci racconta ci porta a capire fin qui (ed è molto): che il segreto agente, l’oscuro motore che mette in moto e agisce la vita della Blixen — la forza che la fa essere quella vita li, assolutamente unica, singolare, irripetibile — è da cercare precisamente in ciò da cui questa vita non si è saputo staccare.
Del suo corpo Karen Blixen, vivendo, ha potuto rifare quasi tutto; in certo senso, ogni vita assomma a questa manipolazione, alla creazione di un corpo artificiale, fittizio; tanto lontano dal corpo naturale quanto il nostro personale vituosismo o arte può concedere. Ciò che non riusciremo mai a rifare tuttavia, forse è precisamente questo il tratto puro che determina lo stile o il portamento di una vita.

Io nella Blixen identifico questo punto ombelicale nel tratto anoressico: che è il modo di colei a cui fanno questione due atti fondamentali alla vita, l’introiezione e l’assimilazione, assommati in quel gesto, per lei pericoloso oltre ogni dire, del nutrimento. Sì che intorno alla negazione di questi atti «naturali, e «bassi», la Blixen elabora (leggere la Thurman per credere) le sofisticate procedure del suo stile di vita; quegli elaborati rituali di difesa, che la difendono essenzialmente da una incapacità a rinunciare un ideale: che la vita sia tutta conquista, e non abbia a che fare con la rinuncia e con la perdita.
È intorno a questo gesto di rifiuto che io vedo costruirsi la vita di Karen Blixen; e quando questo rifiuto si allenta, e la perdita viene accettata (e la catastrofe accade in proporzioni davvero cosmogoniche, per lei!), allora io vedo fiorire la grande arte di Isak Dinesen, la sua risata divina: come di chi sa perché l’ha provato, che a tutto si può rinunciare. Così finalmente libera, nella sua voce ora risuona l’oblio di sé; che solo concede quest'ultima perfezione, che è la gioia dei suoi racconti. Godimento impersonale e assoluto, perché non c’è io nella gioia di quella scrittura: ma solo celebrazione dell’essere: amor fati
Per questo Isak Dinesen è solo una conteuse: moi, je suis une conteuse, rien qu'en une conteuse, lei dirà; e non scriverà mai un romanzo. Perché solo nel racconto si realizza in assoluta purezza quella gioia anonima che è manifestazione nell’aneddoto del destino (anecdotes of destiny, lei chiama i suoi racconti più belli): apparizione allegorica del significato nell’ anonimo dispiegarsi della vicenda umana. Senza personaggi «credibili», senza Bildung «verosimile», il racconto non racconta di nessuna formazione: in esso non v’è nessuna finzione di sviluppo, di progresso di educazione della coscienza (falsi idoli del secolo borghese). V’è solo l'evento che nel suo accadere mostra l’uomo Intero, e dell’uomo una qualche verità anonima, assoluta; che allegoricamente riguarda tutti. E v’è una parola - emblema, che non discorre ma raffigura: dà, di ogni verità, l’equivalente figurale. È nella puntualità sintetica di questa scrittura araldica che risiede il fascino del tutto inattuale, e profondamente originale, di una esperienza di vita e di scrittura, così dissonanti rispetto alle vite e alle scritture che le furono contemporanee.
Questa biografia porta in rilievo precisamente questo tratto arcaico-figurale della Blixen. Richiesta di dirci chi è, la baronessa Blixen — alias Isak Dinesen — la conteuse non esibisce nessuna carta d’identità; ma risponde: «Bene, vi narrerò una storia». E comincia....


“il manifesto”, 28 gennaio 1984

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