Tennessee Williams morì
in circostanze non chiarite (un incidente medico collegato
all'alcolismo? un suicidio?) il 25 febbraio del 1983 in un albergo di
New York. Qualche mese prima, nell'ottobre del 1982, il grande
drammaturgo americano era a Taormina, ove Daniel Ranvaud,
collaboratore del quotidiano comunista “il manifesto”, lo
intervistò nelle circostanze che lui stesso racconta.
Nell'intervista non soltanto emergono l'amore di Williams per Taormina e la Sicilia, la sua inquietudine, la potenza critica della sua intelligenza artistica, ma c'è di più: vi viene raccontato l'abbozzo di un dramma che non poté essere scritto e che proprio a Taormina e in Sicilia aveva il suo svolgimento. Questo rende il testo assai particolare: l'ultima testimonianza che l'autore americano, assai parco nelle interviste, volle dare sul suo lavoro e sulla sua idea di America fu riservata a un piccolo quotidiano della piccola Italia, per di più comunista. (S.L.L.)
Nell'intervista non soltanto emergono l'amore di Williams per Taormina e la Sicilia, la sua inquietudine, la potenza critica della sua intelligenza artistica, ma c'è di più: vi viene raccontato l'abbozzo di un dramma che non poté essere scritto e che proprio a Taormina e in Sicilia aveva il suo svolgimento. Questo rende il testo assai particolare: l'ultima testimonianza che l'autore americano, assai parco nelle interviste, volle dare sul suo lavoro e sulla sua idea di America fu riservata a un piccolo quotidiano della piccola Italia, per di più comunista. (S.L.L.)
Tennessee Williams a Taormina con il pittore e scultore HenrY Falkner |
TAORMINA. Ho incontrato
Thomas Laurier Williams per caso nel chiostro del San Domenico a
Taormina: si aggirava alla ricerca dell'ombra con quel famoso
cappello di paglia che usa a mo' di ventaglio e una camicetta
hawaiana fuori dai pantaloni. Borbottava qualcosa sul suo itinerario
futuro e malediceva gli scalini che doveva fare per ritornare nella
sua stanza dalla piscina dove amava restare il più possibile quando
la calura glielo permetteva. Non sapevo che stavo
chiacchierando amabilmente con Tennessee Williams. Sapevo solo che
questo simpatico ed eccentrico turista americano dall'accento
indefinito mi aveva incuriosito subito. D'altronde nessuno sapeva
ancora che il sessantottenne commediografo americano fosse a Taormina
e, se non fosse stato per l'arrivo della sua dama di compagnia (la
signora Tony Smith) e del suo giovane collaboratore (lo sceneggiatore
Peter Hoffman) che lo chiamarono affettuosamente «Ten», e per il
ricordo delle leggende attorno al suo cappello, non credo lo avrei
mal riconosciuto.
Tennessee ha infatti una
pessima reputazione nei confronti della stampa che lo ha sempre dato
per uno scontroso e burbero mangiabambini, uno che non rilascia mai
interviste, che non si fa mai fotografare e che è capace di perdere
le staffe per un nonnulla. Mi è parso subito che questi pregiudizi
altro non potevano essere che una fantastica montatura. È
un'operazione costruita probabilmente a partire da tutti quei grandi
personaggi da lui creati per scandalizzare più di una generazione di
benpensanti «middleamercans»: dalla inquietante, storpia, Laura
dello Zoo di vetro (1948), ai fratelli/attori Felice e Clare
nel Two characters play (1967); dalla celebre Bianche Dubois
del Tram che si chiama desiderio (1949) al durissimo Brick di
La gatta sul tetto che scotta (1955) assieme a tutti gli altri
relitti umani, ai fantasmi senza pace di un «profondo sud» corrotto
e maledetto nei vari La rosa tatuata (1951), Improvvisamente
l'estate scorsa (1958), La notte dell'iguana (1961).
Forse è stato un modo
come un altro per cercare di esorcizzare questa inquietante visione
dell'America che mette a nudo, attraverso l'allegoria, la spaventosa
paura dell'insuccesso, del fallimento morale e psichico, nel quale si
può solo essere inghiottiti dal viscoso tessuto della società
americana, composto da violenza, sessualità (fino alla morbosità) e
giganteschi sensi di colpa. Invece la generosa cordialità e la
limpida intelligenza di Williams si rivelano proprio il miglior
antidoto contro tutte le maldicenze e le gelosie di cui è stato
oggetto nella sua lunga carriera. Ormai si ritiene un uomo tranquillo
che si rallegra di poter continuare a lavorare
Fissiamo amichevolmente
un appuntamento per un colloquio più approfondito. È la mezzanotte
dello stesso giorno nella sua stanza: farà senz'altro più fresco e
a lui piace ricevere visite o uscire verso quell'ora dato che non può
più lavorare.
Tennessee Williams con Anna Magnani |
WILLIAMS: «Il
negativo è dentro di me.
E io lo racconto» (D.
R.)
TAORMINA.
Come mai Tennessee
Williams in Italia?
Mi piace molto l'Italia,
soprattutto la Sicilia. Ci vengo abbastanza spesso. Sono stato a
Taormina anche due anni fa; ero con un grande, caro amico scomparso
di recente, lo scultore Henry Falkner. Mi sento molto vicino a questa
terra così ricca di memorie felici per me e questo viaggio è per
certi versi un pellegrinaggio che faccio con particolare devozione e
amore.
Qui il mio lavoro non è
lontano da me e sto lavorando con il signor Hoffman già da vari mesi
all'adattamento di due miei racconti per il cinema. Amo viaggiare e
lavorare nello stesso tempo: sono due cose che si completano molto
bene e trovo molto stimolante scrivere durante i miei viaggi. Ma poi
c'è un altro motivo che mi ha spinto a tornare in Sicilia. Vorrei
scrivere una commedia usando come sfondo questa cornice italiana.
A causa di ricordi
suoi personali o per via dell'ambiente?
Beh, per moltissime
ragioni intrinseche, ma soprattutto per ragioni che né lei — e
forse neanche io — si può immaginare, tenendo conto del tipo di
commedia che ho finora prediletto. Si immagini una specie di rivolta
della natura, con tutti i vulcani del mondo che esplodono uno dopo
l'altro causando terremoti, squilibri atmosferici di tutti i tipi con
grandini di fuoco e sconquassi irreversibili. Si immagini anche due
storie romantiche tutte rivolte verso un passato di emozioni e di
guai che si intrecciano confusamente nella memoria di vari
personaggi. Bene, prima di tutti scompare, inghiottita dal mare, la
California intera con Hollywood che precipita nei più profondi
abissi, dove si merita di finire... L'azione comincia (e si sofferma)
nella piazza principale di Taormina con un bar (il Mocambo o il
Wunderbar ndr) che viene man mano sostituito da altri ambienti come
la spiaggia, il rifugio e via dicendo.
L'Etna è l'ultimo del
vulcani a esplodere ma è il più violento, e per i personaggi della
commedia non c'è via di scampo. Gli annunci ufficiali incoraggiano i
cittadini a recarsi sulla spiaggia dove dovrebbero essere salvati
dalla Marina, che però non arriva mai. Chi si reca laggiù può
scegliere soltanto fra la colata di lava o il mare In tempesta. In
tutti gli ambienti prescelti si diffonde il panico meno che nel bar
(che è un po' il posto più adatto per la «cultura» in Italia). Ma
anche il bar alla fine rimane deserto, ad eccezione di un uomo che
continua a bere, dato che gli hanno lasciato la scorta di alcool a
portata di mano. È l'unica persona rimasta in vita — si immagina —
in tutta la Terra...
Sarà lei, immagino.
Lo scrittore perlomeno.
Davvero lei vorrebbe
sopravvivere alla fine del mondo?
Se vuol proprio sapere la
mia opinione, personalmente non credo che ci sarà la fine del mondo,
se non in termini di fiction teatrale... Non è possibile che i
conflitti politici e militari contemporanei si risolvano con la
distruzione del mondo, semplicemente perché ciò non farebbe comodo
a nessuno.
Credo che le forti
tensioni che continuano a preoccuparci esistano in funzione di una
forma concordata, ad alti livelli di repressione, che permetta di
mantenere certi rapporti di forza tra chi rappresenta l'autorità
ufficiale e il popolo vero e proprio. E anche se questo non fosse
vero, io credo che noi tutti non abbiamo altra alternativa che
credere fermamente che sia così, non le pare? Ritornando al nostro
discorso, però, mi sembra giusto che a livello di fiction la fine
del mondo avvenga in Italia. Insomma viene spontaneo immaginarsi la
fine del mondo qui, dopo che sia scomparso tutto il resto. Poi, però,
c'è il fatto che lo scrittore è ancora in scena alla fine e si
preoccupa di scrivere immediatamente qualche cosa d'altro...
Ma per chi? Per cosa?
Per se stesso, per le sue
memorie.
Che cosa pensa di
Reagan?
Mi sento profondamente
americano e mi rammarico della fase di reazione che purtroppo stiamo
attraversando. Sono convinto che non può durare a lungo e che
presto torneremo ad una democrazia più consona agli americani.
Bisogna tener duro, però.
Tempi duri anche per
la cultura. Se non sbaglio la sua ultima commedia non è andata molto
bene a Broadway...
Dica pure che fu un
fiasco (questa parola va bene in italiano, è vero?).
Era Closed for Summer,
vero?
Sì, una cosa del
genere... È stato due anni fa a Broadway... Altrettanto male era
andata prima a Chicago The House Not Meant to Stand. Allora
pensai che forse era il caso di smettere. Basta con le commedie
lunghe (a parte quella che sto scrivendo e di cui abbiamo parlato)...
solo atti unici e novelle piuttosto che romanzi, sennò che palle!
Lei crede molto ai
giudizi dei critici?
No. In generale li trovo
molto poco attendibili. Una commedia può spesso ricevere recensioni
completamente opposte da un "revival" ad un altro; Invece è
molto difficile che si sbagli il pubblico pagante, se continua a
essere tale... Camino Real è forse il mio caso più clamoroso
in questo senso. È stata una bella soddisfazione!
Che cosa la spinge a
continuare a scrivere; o — per dirla all'antica — da dove prende
ispirazione?
Ci sono tanti misteri
attorno all'atto dello scrivere! Vede, se si scava un pochino, i
misteri svaniscono, ma allora ci troviamo tutti scontenti. Meglio
lasciare che i misteri continuino a esistere...
Ma allora la sua
recente biografia come dobbiamo prenderla, se non in senso
demistificatorio?
Questo è un capitolo che
mi ha dato quasi soltanto dispiaceri. Credo che mai nessun altro sia
stato trattato così male dopo essersi esposto cosi tanto. Mi sento
truffato economicamente e anche moralmente a causa della reazione di
alcune persone. E pensare che ne avrei di cose da dire; ho appena
cominciato. Vorrei poter raccontare un giorno tutta la verità su
quello che ho visto e sentito nel mondo dello spettacolo durante la
mia lunga carriera. Eh, sì... Ma almeno ho la consolazione di aver
fregato tutti i miei coetanei, dato che sono sopravvissuto a tutti!
E per quanto riguarda
il cinema?
Ah, io non mi stanco mai
di vedere Il Falcone Maltese.
Veramente io volevo
parlare dei suoi film...
Beh, Brando mi ha
impressionato moltissimo: un attore veramente senza uguali. Ma ho
anche avuto la fortuna di trovare delle interpreti eccezionali in
Vivien Leigh e nella indimenticabile Magnani...
La cosa più
traumatizzante però per me è sempre stato il mio rapporto con la
censura che mi ha sempre perseguitato stravolgendo alcune tra le cose
più belle e significative dei miei lavori. Vorrei raccogliere le mie
sceneggiature e pubblicarle tutte insieme, anche quelle che, per una
ragione o per l'altra, non sono mai arrivate allo schermo. Forse la
mia opera meno perseguitata è stata The Roman Spring of Mrs.
Stone (1961), tratta da un romanzo. In questo senso sono contento
del risultato.
E nel teatro? Qui
siamo nella terra di Pirandello e la sua ultima commedia sembra avere
dei richiami pirandelliani come in altri suoi lavori, o sbaglio?
Pirandello era un abile,
grande mattacchione. Mi piace moltissimo e perciò non mi dispiace
affatto la sua affermazione. L'unica cosa, magari, è quella di
temperare una materia che può esser definita pirandelliana con —
non so — la cura e l'efficacia di un Cechov (forse il più grande
drammaturgo di tutti i tempi), o magari anche di uno Strindberg. A
teatro questi sono gli autori che mi hanno dato più emozioni e che
mi hanno insegnato di più.
Che cosa l'ha ferita di
più, nei tagli del censore: i sistematici cambiamenti dei finali o
quelli apportati ai dialoghi?
Ma tutto! Cose
incredibili! Mi hanno rovinato anche Streetcar...
Che è il lavoro che
lei predilige?
Sì, ancora adesso.
E tra i suoi
personaggi?
I personaggi fanno tutti
parte di me stesso, nel bene e nel male. Soprattutto nel male, perché
trovo che in uno scrittore — come in tutti, del resto — ci sono
molti lati negativi che si vorrebbero nascondere. La differenza fra
gli altri e lo scrittore è che lui, invece di nasconderli, deve
farli venir fuori, i lati negativi, e farli crescere.
“il manifesto”, 17
ottobre 1982
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