Hans Magnus Enzensberger
è sempre stato uno scrittore controcorrente. Icona della letteratura
tedesca del dopoguerra, poeta e narratore, drammaturgo e critico,
giornalista ed editore, questo maestro del paradosso e dell’ironia,
ha girato in lungo e in largo per il mondo. Un testimone essenziale a
cui chiedere com’erano le cose un tempo. Un saggio la cui data di
nascita risale al 1929. Dopo tanti suoi versi improntati al
pessimismo della ragione c’era da aspettarsi, a questo punto, un
bilancio, una ricca autobiografia. Ma la sua memoria - dice lui un
po’ sornione - è simile a un setaccio in cui ben poco resta
impigliato. Per di più non prova il minimo entusiasmo ad annotare
ciò che lo riguarda. Meglio allora affidarsi al caso che un bel
giorno gli fa ritrovare in cantina, dentro un paio di scatoloni,
lettere, taccuini, ritagli di giornale, manoscritti sugli anni
Sessanta e Settanta del Novecento. Materiale di prima mano, non
inventato o rielaborato a distanza di tempo. Così è nato Tumulto,
un affascinante ed eterogeneo racconto, che Einaudi pubblica nella
bella versione di Daniela Idra, in cui lo scrittore accosta
annotazioni sui suoi viaggi in Unione Sovietica e su un lungo
soggiorno a Cuba con la giovane moglie russa Maša, al vivacissimo
dialogo con un sosia, cioè l’intellettuale di allora che faceva il
suo ingresso nel jet-set della cultura e della politica
internazionali, diventando al tempo stesso un punto di riferimento
per l’opposizione extraparlamentare.
Il poeta veste i panni
del globe trotter e i suoi appunti, sottratti casualmente
all’oblio, si trasformano in un appassionante itinerario attraverso
momenti cruciali del dopoguerra, dal revisionismo di Kruscev ai
postumi della rivoluzione cubana, dal Sessantotto alle degenerazioni
del terrorismo. Già nel 1963, a Leningrado per un convegno sul
romanzo contemporaneo, conosce illustri autori, da Sartre a Simone de
Beauvoir, da Ungaretti a Erenburg e all’imprevedibile Evtušenko
che lo introduce nei locali giovanili dove si balla fino al mattino
al ritmo del twist. Con flash fulminanti Enzensberger fissa atmosfere
e personaggi come l’interprete Kostja che ha conosciuto il gulag e
cita a memoria le poesie di Rilke o lo stesso Sartre travolto dal
fiume di vodka dei troppi brindisi.
I ricordi di allora
scorrono come il film di un regista insaziabile che guarda con avida
curiosità dietro gli eventi diffidando di ideologie e dottrine. È
il gusto per le contraddizioni che dà slancio e tensione al testo,
come la scoperta del feticismo della merce nel paese del socialismo
reale o il disagio verso i «professionisti delle chiacchiere»
durante un megacongresso sulla pace a Baku, mentre qua e là
infuriano i conflitti. In sintonia con l’autore anche il lettore
smarrisce le coordinate geografiche e temporali, immerso in una sorta
di elettrizzante racconto orale. È invitato nella villa di Kruscev a
Gagra, dove il “piccolo grande uomo” esalta la democrazia
nell’URSS e polemizza coi cinesi, oppure si associa allo scrittore
e attraversa quell’immenso paese in un brulichio di lingue e
popolazioni: dal Mar Caspio a Taskent e a Samarcanda, e poi oltre,
fino a Irkutsk, tra palazzi zaristi, odore di taiga e infiniti visi
mongoli, sognando la Transiberiana con i samovar e i letti felpati.
Ma Enzensberger ha un’unica meta: tornare a Mosca, anzi a
Peredelkino, dove vissero anche Gor’kij e Pasternak, dalla sua
bella e giovane Maša: era nato un amour fou pronto a
«trasformarsi in un travolgente romanzo russo». Lascia la moglie
norvegese e va con la nuova fiamma a Berlino, poi in America e infine
a Cuba. Una storia dal triste e drammatico epilogo: il divorzio nel
1980 e il suicidio della ragazza una decina di anni dopo.
Ecco un aspetto del
tumulto soggettivo di uno scrittore capace di soffocare il dolore nel
gesto della distanza, con incredibile forza intellettuale. «Mi
sopraffà, ignoro perché, una grande quiete», scrisse nel poema La
fine del Titanic. Erano ormai lontani gli anni di storica babele
che “avevano ingoiato se stessi” e nei quali il suo sosia
riconosce ora di essere stato piuttosto assente. I compagni creavano
la Kommune I sognando il presidente Mao, masse giovanili
partecipavano al congresso internazionale sul Vietman a Berlino, Rudi
Dutschke dava fiato all’opposizione e la Raf con Ulrike Meinhof
scendeva in clandestinità. Un tumulto sociale che vede lo scrittore
in giro per il mondo, magari in Cambogia dal principe Sihanouk, a San
Diego a discutere con il filosofo Marcuse, all’Avana ad ascoltare
le spacconate di Castro o forse in Via Veneto con Gadda e Moravia. Un
cattivo compagno - si definisce -, insofferente a qualsiasi vessillo.
In realtà un grande intellettuale borghese che dialoga con Lilja
Brik, Nelly Sachs, Pablo Neruda, l’illuminista moderno che, come
l’amato Brecht, non produce certezze, ma stimola domande. Anzi,
crea tumulto, svelando un mondo in fermento in cui mette in scena se
stesso e il proprio lucido disincanto.
“Tuttolibri La Stampa”,
19 aprile 2016
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