Il filosofo americano Michael Walzer, direttore della rivista "Dissent" è tra i più prestigiosi esponenti del socialismo democratico americano. Quello sotto è il testo del suo intervento del convegno torinese dedicato nei giorni scorsi a Norberto Bobbio nel centenario della nascita e pubblicato su "La Stampa" del 18 ottobre. La lettura pone interrogativi importanti. Già da tempo molti di noi pensano, sulla base delle lezioni che vengono dal comunismo del 900, che nessun fine giustifica i mezzi e che i mezzi sbagliati possono guastare i fini. Ma non avevo mai letto espressa con tanta chiarezza e coerenza l'idea che il socialismo è essenzialmente nei mezzi, nella partecipazione collettiva, nelle ribellioni che costruiscono l'uguaglianza. Molto "marxiana" poi mi pare l'equivalenza che qui si instaura tra libertà e liberazione.
Sono i mezzi che giustificano il fine socialista
Esistono aspirazioni socialiste e socialdemocratiche. Ciò che però distingue gli uomini e le donne di sinistra da tutti gli altri non sono solo quelle aspirazioni ma anche, e forse soprattutto, il modo di realizzarle. Si ricordi l’antica massima della sinistra: «La liberazione della classe operaia dev’essere opera della classe operaia stessa». Se la liberazione non è auto-liberazione, non conta. L’importante, allora, non è la realizzazione ultima degli obiettivi socialisti, ma il processo attraverso il quale vengono realizzati. Intendo adottare qui l’ottica del grande revisionista Eduard Bernstein. Noi pensiamo il socialismo come un fine alla vista, ma ciò su cui ci concentriamo, su cui ci impegniamo davvero, sono i mezzi per raggiungerlo. Qui è la nostra ambizione più intima e reale. A essere sinceri, le persone che più vorremmo essere non sono i cittadini di un futuro Stato socialista, ma gli attivisti e i militanti che lottano per realizzarlo. Così la domanda «Quale socialismo?» andrebbe intesa in termini temporali: socialismo-in-corso-di-realizzazione o socialismo-realizzato? Dovremmo scegliere socialismo-in-corso-di-realizzazione per indicare che abbiamo capito che potremmo non vedere mai la realizzazione.
Il nostro è un socialismo «partecipativo» e ciò che abbiamo da dire riguarda partiti, unioni, movimenti e associazioni di vari tipi e i loro attivisti e militanti politicamente impegnati «a sinistra». Ma riguarda anche il mondo politico in cui siamo immersi. Attualmente in Occidente la democrazia, le regole e lo Stato assistenziale sono la norma. Ma questo significa altresì che sono sottoposti a un certo tipo di pressione contraria, che è un fatto «naturale». In ogni organizzazione politica, in ogni Stato, in ogni società, esiste una tendenza continua all’autoritarismo e alla gerarchia. In assenza di forze di compensazione, il potente diventa più potente, il ricco più ricco. E questo accade sempre e ovunque. La spiegazione di questa tendenza «naturale» è facilmente intuibile: chi possiede potere e ricchezza, possiede anche i mezzi per difenderli e incrementarli.
La mia tesi richiede però una spiegazione più generale della tendenza «naturale». Consideriamo la sua forma più comune: il potere politico. Quelli che lo detengono lo usano per rafforzare la loro posizione e il benessere di amici e alleati, reprimendo o escludendo gruppi che potrebbero fornire una base sociale per l’opposizione – minoranze religiose o etniche, subordinati di ogni tipo, lavoratori, donne, immigrati – e costringendo l’intellighenzia a adeguarsi o emarginandola. Per esercitare il loro controllo, cercano di accumulare «potere su potere», come scriveva Hobbes, rafforzando l’esecutivo, potenziando l’esercito, creando una polizia segreta, corrompendo la funzione pubblica, ponendo vincoli alla libertà di stampa. Scoraggiano o cooptano i capi dell’opposizione o adottano mezzi di repressione più o meno legali. Premiano i loro finanziatori con licenze, immunità, monopoli, contratti governativi e l’assistenza di enti statali per vincere la competizione, resistere ai sindacati, evitare l’applicazione delle norme ambientali o di sicurezza e così via. A volte lo fanno nel contesto di uno stato di emergenza dichiarato, più spesso entro i limiti della Costituzione. Lo fanno in un lasso di tempo breve o, se sono astuti, a poco a poco, in modo che appaia come un processo naturale.
La tendenza è «naturale» nel senso che, almeno in parte, è imperturbabile ai meccanismi e al dettato della Costituzione; può essere contenuta, ma non del tutto bloccata. Anche contrastarla è naturale ma, mentre la tendenza è continua, l’opposizione è sporadica. Possiamo pensare all’attività di militanti contro l’autorità e la gerarchia come a un «lavoro fisso», ma il lavoro funziona solo quando produce lampi di militanza di massa – mobilitazioni, sollevazioni, insurrezioni. La crescita di potere e ricchezza può essere arrestata o, più realisticamente, interrotta e in parte ribaltata solo con una opposizione di massa. Le vittorie democratiche sono possibili, ma devono essere reiterate, perché la crescita di potere e ricchezza è continua. La mia tesi trova paralleli in quella dei rivoluzionari del ‘700, che scrivevano: «Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza». Io invece dico: «Il prezzo dell’uguaglianza è la ribellione reiterata».
Uso il termine «ribellione» per descrivere cose come il movimento operaio degli Anni 30, che si opponeva all’autorità del capitale, il movimento per i diritti civili degli Anni 60, che sfidava la gerarchia razziale, e il femminismo degli Anni 70, che sfidava la gerarchia dei generi. Questi movimenti, pur non avendo realizzato fino in fondo le alte ambizioni dei loro militanti, sono però riusciti a cambiare la distribuzione del potere e della ricchezza negli Stati Uniti. Hanno contrastato la tendenza al «potere su potere» e spostato l’equilibrio delle forze in modi piccoli ma significativi. E, sindacalizzando i lavoratori e inscrivendo in leggi i diritti civili e l’uguaglianza tra i sessi, hanno creato ostacoli alla ripresa della tendenza naturale.
Sospetto che il secondo gruppo di questi ostacoli si rivelerà più efficace del primo – già ce ne sono i segni. In una società capitalistica, le disuguaglianze di razza e di genere probabilmente non sono necessarie all’esistenza di un ordine gerarchico, ma lo è certamente il dominio del capitale sul lavoro – di qui la sua chiara riaffermazione negli ultimi tre decenni. Dunque, quanto era vero negli Anni 30 lo è di nuovo oggi: le diseguaglianze della società americana non troveranno un rimedio senza una nuova ribellione. Questa verità fondamentale si è già manifestata nell’incerta battaglia dell’amministrazione Obama per rafforzare lo Stato assistenziale e fermare la deriva verso una sempre maggiore diseguaglianza. Senza un movimento popolare che li sostenga, ci sono grossi limiti a ciò che il Presidente e i suoi consiglieri possono realizzare.
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