Il testo qui postato è stato pubblicato su “micropolis” dell’ottobre 2004 e poi inserito nel volume a margine, Giada, Perugia 2005.
Un approfondimento dialogico dell’analisi si trova nella conversazione con Brunella Bruschi pubblicata nel volume collettivo Femminil/mente, Edizioni Era Nuova Perugia, ottobre 2008. (S.L.L.)
Un approfondimento dialogico dell’analisi si trova nella conversazione con Brunella Bruschi pubblicata nel volume collettivo Femminil/mente, Edizioni Era Nuova Perugia, ottobre 2008. (S.L.L.)
Macchinista rosso
di Walter Cremonte
Mentre si commentava così, alla buona, l’ultimo numero di “micropolis” con Salvatore Lo Leggio, il mio amico mi faceva notare la stranezza (stranezza peraltro foriera di possibili buone riflessioni, di possibili buoni dibattiti) della pagina 6: in questa pagina c’è, da una parte, un ricordo di Maurizio Mori del caro compagno da poco scomparso Livio Maitan, trozkista; e la parola trozkista è messa in forte evidenza nel titolo. Dall’altra parte, in posizione simmetrica, c’è la dichiarazione dell’adesione di “micropolis” all’appello dell’Anpi contro la decisione del governo di destra di tagliare il contributo statale alle attività delle associazioni partigiane.
Chiacchierando con Salvatore, si pensava alla sorpresa che forse avrebbe colto i vecchi comandanti partigiani interpellati, la cui formazione risale agli anni di Stalin e dell’ammirazione senza riserve per le capacità politico-militari dei comandi sovietici nella comune guerra al nazifascismo, nel vedersi, lì accanto, esaltare la memoria di un compagno trozkista. Ad un certo punto, quasi all’unisono, ci è tornata alla mente la poesia di Giovanni Giudici, Stalinista, di cui ricordavamo esattamente la chiusa. Siccome credo che non sia una poesia molto conosciuta, non appartenendo ai libri maggiori del nostro grande poeta, ho pensato di proporla per intero (da Prove del teatro, Einaudi, 1989):
Stalinista
Morivo come Tolstoj - scappato via
In una stazioncina
Ma non tra sarmatiche nevi
Bensì a un grazioso clivo d’Appennino
Tra monte e mare dov’era
La ricchezza dei miei prima che uno
La furasse a Giannino:
Tra affettuosi ferrovieri però io pure
E tuttavia volendo non morire
Per un qualcosa di telefonato
O mandato piuttosto a dire:
Non mia ma figlia pare d’un mio figlio
Avevano lasciato una bambina
Assai più addentro Italia assai più giù
Per me ad altra sperduta stazioncina
Morivo e non volevo non morire
Ero là come sono
Qui adesso coi miei nervi-ragnatela
Il mio tasso-a-sant’anna le ossa rotte
E non so quale di preciso ora
Fosse del giorno o della notte
Là dove un po’ scherzando disvoleva
Colui che mi rispose
D’un fiochissimo filo all’altro estremo
Darmi l’infante che con sé teneva-
Chi parla? - E disse: il capo macchinista
Ma di quale mai macchina sa Dio
Tu sei un compagno? - dal mio cuore pieno
Gli chiedo e ride: sì, ma stalinista
E per averti a me rispondo: anch’io
-
C’è dunque una situazione di ansia, non sappiamo se determinata da un fatto reale o, come spesso in Giudici, da una condizione sospesa tra realtà e sogno; uno di quei sogni che rendono inquiete le nostre notti e, a volte, si sciolgono in un modo perfino rassicurante. Qui l’ansia di un nonno per la nipotina a lui affidata e il senso di colpa - per un errore forse, una dimenticanza o confusione, o forse per il suo volere/non volere morire (sottrarsi o affrontare le proprie responsabilità?) - si stemperano nell’affetto dei ferrovieri della stazioncina: la loro premura così umana apre una possibile via d’uscita dall’angoscia.E c’è il capo macchinista, dall’altra parte del telefono, che scherza, fingendo di volersi tenere la bambina: certo che è uno scherzo, vuole solo farlo stare ancora un po’ sulle spine questo nonno che forse un po’ colpevole lo è. Però l’ansia riaffiora e sta tutta in quella parola, “macchina”, evocatrice di oscure minacce. Allora la domanda, che vuole una risposta rassicurante: “Tu sei un compagno?”. E qui il colpo di genio, lo straordinario punto di svolta della poesia: il capo macchinista, forse per rivendicare una peculiare “purezza e durezza” della classe operaia di fronte all’interlocutore borghese e intellettuale (perfino poeta!), conferma che sì, è un compagno, ma stalinista. E lo dice ridendo, continuando lo scherzo di prima; ma il punto è che il poeta, che stalinista non è, risponde: “anch’io”. Lo dice “per averti a me”: a chi si riferisce quel pronome complemento oggetto? E’ molto probabile, anzi, certo che sia riferito idealmente alla nipotina, che grazie alla professione di stalinismo ora potrà tornare sicuramente dal nonno. Ma mi è parso sempre che, nell’ambiguità della formulazione, quell’”averti a me” contenesse anche il capo macchinista, prolungando nel -ti il tu dell’interlocuzione. E che quindi “anch’io” significasse qualcosa di più della semplice captatio benevolentiae.
Sono stato da giovane nella Quarta Internazionale, non perché ne sapessi poi molto di Trotzki, ma perché volevo essere comunista senza dover condividere l’orrore staliniano e l’ortodossia (come anche Mori, nel suo articolo, giustamente riconosce a tanti compagni di quell’esperienza). Ed ora sostengo con convinzione la posizione di Bertinotti e di Ingrao che tracciano un solco profondo fino allo strappo rispetto allo stalinismo e, con esso, a buona parte della storia del movimento operaio. Senza se a senza ma. E però mi commuove e mi persuade sempre l’anch’io di Giudici, quel sentimento dell’appartenenza che ci fa meno soli. Contro ogni ragione, con il senso dell’animo di cui ci ha detto Leopardi.
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