28.10.09

Preistoria di Sciascia ("Favole della dittatura" - una piccola selezione con un saggio introduttivo inedito)





Preistoria di Sciascia




1. Un libro quasi segreto
Favole della dittatura è il titolo del primo libro pubblicato nel 1950 da Leonardo Sciascia presso l’editore Borsi di Roma. Il testo, in Italia, è rimasto a lungo sconosciuto. L’autorevole Letteratura Italiana Einaudi non manca di citarlo nel Dizionario bio-bibliografico degli autori, ma parla erroneamente di poesie. Che si tratti di un libro “quasi segreto” è dovuto probabilmente al fatto che l’autore lo considerava imperfetto ed immaturo e che insieme ad altri testi del suo apprendistato non lo volle inserire nelle Opere Complete di cui Bompiani pubblicò il primo volume quando Sciascia era ancora in vita nel 1987. L’Opera Omnia del maestro di Racalmuto viene fatta iniziare dal 1956, con Le parrocchie di Regalpetra.
Sciascia tuttavia ne autorizzò nel 1980 una riedizione francese: con la traduzione di Jean Noel Schifano ed, insieme ad una raccolta di poesie La Sicilia, il suo cuore, le favole furono pubblicate da una piccola casa la Pandora, oggi non più esistente. Non ebbero una grande diffusione. Il libro è oggi una rarità.
Le 28 favole di animali parlanti (l’uomo compare in pochissime) sono tutte brevi, sul modello di Esopo, Fedro e Lafontaine, ma il loro carattere attuale è sancito non solo dal titolo, che rimanda all’esperienza del fascismo, ma anche dalle due citazioni che vi fanno da epigrafe.
La prima dalla Fattoria degli animali di Orwell (“Le creature di fuori posavano i loro occhi un po’ sul porco e un po’ sull’uomo, sull’uomo e poi sul porco e ancora sul porco e poi sull’uomo, ma ormai era per loro impossibile distinguere l’uno dall’altro”), la seconda di Leo Longanesi (“Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti d’ogni sorta ma nessuno potrà comprendere quel che ci è accaduto. Come trasmettere alla posterità la faccia di F. quando è in uniforme e scende dalla sua automobile?”).
Il libro - in questo Sciascia aveva ragione - non è certamente un capolavoro. Le favolette sono molto letterarie, ma si avverte con chiarezza in molte di esse la vocazione di Sciascia e con essa il suo destino di scrittore, le ragioni della sua popolarità e impopolarità e perfino quel pessimismo e quella pietà, che ne connoteranno l’opera maggiore.
Alla base delle favole c’è lo scetticismo, scetticismo in senso tecnico, alla maniera di un Pirrone o di un Montaigne. Si fanno a pezzi comportamenti, convinzioni, modi di dire o di essere, per svelarne l’inconsistenza e per questa via si mette in luce la fragilità dell’umana specie. Sotto tutte le maschere che l’uomo è in grado di assumere c’è, incontrollata e incontrollabile, una propensione al servilismo verso chi sta su ed alla prepotenza verso chi sta giù. In questo propriamente consiste la forza di ogni dittatura, nell’uso sistematico dell’altrui debolezza, nella capacità di assecondare le inclinazioni più ignobili dell’uomo. Se la maschera di forza che la dittatura ostenta si incrina, intorno al potere si fa il vuoto e tutti sono pronti ad assumere nuovi ruoli o anche soltanto a maledire chi avevano servito.
Forse piuttosto che parlarne in astratto è bene ora leggere alcune di queste favole per cercare in esse uno stimolo alla riflessione.




2. Le favole della dittatura

So quel che pensi
Superior stabat lupus: e l’agnello lo vide nello specchio torbido dell’acqua. Lasciò di bere, e stette a fissare quella terribile immagine specchiata. “Questa volta non ho tempo da perdere”, disse il lupo: “Ed ho contro di te un argomento ben più valido dell’antico: so quel che pensi e non provarti a negarlo”. E d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo.

Ma è soltanto un asino
Cercando col muso tra i resti di un carro di carnevale, l’asino scoprì una enorme testa di leone: vi infilò dentro la sua e, mezzo accecato da quella testa di cartapesta che intorno alla sua si muoveva come un cappello in cima a un bastone, uscì per i campi ragliando di gioia. Galoppando, entrò in mezzo a un gregge tranquillo, arruffandolo di spavento e di confusione. Subito però il castrato più anziano capì di che si trattava. “Sei il signore di noi tutti” belò; “disponi di noi come vuoi”. L’asino accettò l’omaggio con altissimo raglio. E un agnellino osservò allora al castrato: “Ma è soltanto un asino”. E il castrato: “Stupido, lo so bene che è un asino. Bisogna però trattarlo come un leone, se non vuoi che i suoi calci ti piovano sulla schiena. Quando il padrone verrà a riprenderlo, sapremo come chiamarlo”.

L’amicizia del toro
“Va bene, mia moglie sarà la vacca che tu dici”, rispose il bue all’indiscreto argomentare del cavallo; “ma indubbiamente l’amicizia del toro mi fa onore”.

L’uomo in divisa
Guardando l’uomo in divisa, chiuso e rigido dentro tanto splendore, la scimmia pensò: “in fondo la mia condizione non è triste: mangio bene, faccio la mia ginnastica, la gente che si affolla intorno a questa gabbia mi diverte. Ma vorrei tanto avere un vestito come il suo”.

L’anima
L’asino aveva una sensibilissima anima, trovava persino dei versi. Ma quando il padrone morì, confidava: “Gli volevo bene: ogni sua bastonata mi creava una rima.

Il cane
Il cane abbaiava alla luna. Ma l’usignuolo per tutta la notte tacque di paura.

Il canarino
Presso la gabbia del canarino, il gatto di casa spiegava a un suo amico in visita: "Certo, mi piacerebbe tanto mangiarlo. Ma per ora non ci tento; il suo canto è delizioso, addolcisce spesso la mia vecchia noia".

I corvi
Tra i topi e i campanili di un antico monastero, i corvi imposero la superiorità del loro numero a passeri e colombi; e perfino al vecchio barbagianni greve di sonno sentenzioso. Dicevano i corvi che il dominio sugli altri uccelli era loro da natura predestinato per il bel nero delle penne, che solennità e autorità altro colore che il nero non potevano avere. E così gli altri uccelli si convinsero, con l’avallo filosofico del barbagianni.
Ma un giorno videro i corvi più anziani fissare alle loro ali stupende penne di pavone, gracchiando di compiacenza, e i corvi più giovani razzolare tra le tegole in cerca delle penne lasciate dai colombi.

Dentro la trappola
Dentro la trappola, una di quelle trappole a gabbia, il topo stava quieto, pieno di disgusto e di noia. L’uomo entrò in cucina e stette a guardarlo. Quando incontrò gli occhi dell’uomo, il topo capì che stava scegliendoli un genere di morte. “Poveretto”, pensò, “sta pensandoci più di me che debbo morire”.

I topi le talpe e le faine
I topi le talpe e le faine, tutti gli animali che rosicchiavano ai margini di una fattoria, progettavano una rivoluzionaria occupazione della dispensa e del pollaio. Ottimo era il piano; ma fu la talpa a preoccuparsi della data. “In inverno”, disse. Ci sono tante cose favorevoli in inverno”. E qui diventò eloquente e precisa; fu acclamata:
Gli altri non pensarono che, d’inverno, le talpe profondamente dormono.

Il rospo
Nel solco lasciato dai carri i ragazzi posero il rospo straziato. Il primo carro che venne su, l’asino stracco che lo tirava riuscì a cavar fuori la ruota dal solco. Fiutato lo strazio del rospo, l’asino non ebbe il coraggio di schiacciarlo. Delusi, i ragazzi corsero a posarlo sul ferro del binario. Quando il treno sferragliò improvviso, il rospo pensò: “Davvero non posso lamentarmi del progresso”.

Tanto era grasso il porco
Tanto era grasso, il porco, che per tutta una notte non sentì il topo rosicchiargli un fianco. Tra sonno e veglia, a mezzo della notte, avvertì soltanto un piacevole solletico; tanto piacevole da sprofondarlo ancora nel suo sonno più duro. Quando all’alba cominciò a sciogliersi dal sonno sgrugnando, il topo fuggì, lasciandogli nel fianco una lubrica caverna di lardo.

Un mastello d’acqua rovesciato
Un mastello d’acqua rovesciato tra le pietre, e la notte diaccia inganno la lumaca. Con voluttà mosse tra le pietre bagnate il corpo gelatinoso, trascinò lenta il suo guscio, e sentiva nell’umida fragranza della terra il propizio mutare della stagione. Ma era lunga la strada, dentro quel gran mucchio di pietre. La lumaca si trovò fuori che già il sole friggeva.

Il gallo aveva cantato due volte
Il gallo aveva già cantato due volte; e il cielo, algido e grigio, si venava di rosa. Nel buio del pollaio si sentì improvvisamente l’atroce presenza della faina. Pazzamente le galline volarono sui trespoli, e il gallo si volse là dove sentiva la faina aggobbirsi e raccogliersi allo scatto. L’ebbe sopra di colpo. E sentì la faina addentarlo, aguzza e avida, al collo: e succhiare, succhiare…
Nella casa accanto, l'uomo attese invano che il gallo cantasse una terza volta. Ritornò ad affondare tra le coltri, e nel sonno respinse le contrizioni già pronte.


3. Postilla conclusiva
Piuttosto che analisi dotte abbiamo preferito leggere direttamente le favole del giovane Sciascia, uno Sciascia minore certo, ma che contiene in sé almeno due costanti del suo impegno civile e letterario.
Fin da questa prima prova l’intellettuale siciliano si presenta come un moralista. Valgono per lui i giudizi che espresse sul suo maestro Manzoni, in occasione del centenario del grande scrittore lombardo. Manzoni, apprezzato, non poteva essere amato, perché la sua intransigenza mostrava agli italiani le cose che non amano sentirsi dire e che preferiscono del tutto ignorare di sé stessi. Questo rigore, questa mancanza di indulgenza che non perdona neanche a se stessi (ma non esclude la pietà, soprattutto per se stessi) rende Sciascia indigesto come rendeva indigesto Manzoni.
La seconda delle costanti riguarda la brevità della forma e della frase. Sciascia si tiene lontano dall’enfasi e dalla prolissità che caratterizzano quasi sempre i giovani scrittori e spesso anche quelli non più giovani. Ridurre, circoscrivere è la via più efficace per chiarire. Il che non significa affatto che l’esiguità del numero delle pagine che compongono un libro o delle parole che compongono una frase comporti una semplificazione banalizzante. Parlava di se stesso Sciascia, quando caratterizzava lapidariamente Pirandello: “scrittore dalla frase breve e dal pensiero lungo”. Parlano di sé quasi sempre i grandi scrittori.
Quanto alle linee di ricerca e di cultura dentro cui il giovane Sciascia si muove mi pare evidente la linea illuministica della sua indagine sulla dittatura e sui comportamenti umani. Ma non è la linea dell’illuminismo trionfante, quella cui basta sapere che “il sonno della ragione genera mostri”, ma quella inquieta e “pessimista”, quella che sa che anche “il sogno della ragione genera mostri”, quella capace di sottoporre a critica impietosa anche il supremo mito illuministico, quello del progresso.
Sui contenuti concreti, sull’analisi indiretta della dittatura fascista e della tentazione totalitaria lascio volentieri ai lettori il piacere di leggere nelle gustose favolette simboli, suggestioni, allusioni. Io sollecito l’attenzione sulla prima favola della mia antologia, che è anche la prima del libro, una variazione sulla favola antica del lupo e dell’agnello. Quando Sciascia scrive Hannah Arendt non ha ancora pubblicato la sua fondamentale opera sul totalitarismo moderno. Ciò che distingue il totalitarismo novecentesco dalle forme più tradizionali di dominio politico - affermerà nella sua opera monumentale - è la necessità di sottomettere anche le coscienze, la volontà di colonizzare il pensiero. Sciascia l’aveva già intuito. Proprio per questo il suo lupo non ha bisogno di inventare una colpa particolare e specifica per fare a pezzi l’agnello; la colpa di costui è nel pensiero, nel solo fatto di pensare liberamente.

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