7.7.10

Al 68 quel che è del 68, a Berlusconi quel che è di Berlusconi. A proposito di un'intervista al filosofo Giovanni Reale.

Su “Tuttolibri”, il supplemento di informazione bibliografica che esce ogni sabato con “La Stampa”, c’è una rubrica fissa, Diario di lettura, l’intervista ad una personalità della cultura italiana, sulle letture importanti, passate e presenti. Il primo maggio 2010 si trattava di Giovanni Reale, filosofo di orientamento cattolico tra i più rinomati, traduttore e curatore, tra l’altro, delle opere di Platone. Le riposte che dà sono mediamente apprezzabili, ma c’è un passaggio dell’intervista francamente deludente, quello dedicato a Dante. Così si esprime: “Non è vero che non parli più ai giovani d’oggi, è che molti insegnanti, figli del Sessantotto, non lo sanno più spiegare”. Un filosofo, anche se cattolico, non dovrebbe mai perdere un approccio alle cose razionale, critico ed aperto. E, invece, in questo caso, il professor Reale non sa davvero di che cosa parli, ma, basandosi su luoghi comuni banalizzati, pontifica. Sarà che era molto amico del defunto papa Wojtila e “chi va col pontefice, impara a pontificare”.

Sono dieci anni che non insegno più nei Licei, ma finché l’ho fatto ho costatato che Reale non si sbaglia quando attribuisce a Dante la capacità di parlare ai giovani. Ricordo che la lettura del canto XXXIII del Paradiso è stata anche la mia ultima lezione scolastica, con la mia ultima terza del Liceo classico, fatta all’aria aperta, seduti sul prato di San Francesco a Perugia, davanti all’Oratorio di San Bernardino da Siena, seguendo un rito che praticavo da anni l’ultimo giorno di scuola. Di quella lezione non ricordo quasi niente, se non la gioia e la commozione comunicativa. Di sicuro ad ottenerle cospirava il fatto che quello fosse anche per me, oltre che per le ragazze e i ragazzi, il termine di un lungo viaggio; ma di certo c’entrava anche Dante, il suo testo difficile e solenne, la sua grandezza di poeta dell’indicibile, dell’innominabile e dell’immemorabile. Sono uno di quelli che Reale chiama “figli del 68” e credo, senza falsa modestia, che Dante lo sapevo spiegare. Non perché fossi un’insegnante speciale, ma perché, per leggere Dante e un’opera come la sua, occorrono, ancor più che competenza professionale (che non guasta mai), umiltà e simpatia. Ciò significa che tanti altri “figli del 68”, quasi tutti oserei dire, sapevano farlo.

Credo perciò che il professor Reale non ricordi bene (chissà, forse i suoi studi del tempo lo portavano lontano dal contatto con le esigenze vive dei giovani che sul finire degli anni sessanta studiavano all’Università, proprio mentre ne contestavano l’assetto culturale e sociale). In verità la maggior parte dei ragazzi che studiavano Lettere nel periodo caldo il proprio Dante dovettero conquistarselo un po’ da autodidatti. Lo facevano volentieri, perché a sua volta Dante conquista facilmente le persone assetate di giustizia, e in quella generazione tanti lo erano.

Il Dante che, prima di loro, dominava nei Licei e, in gran parte, anche nell’università era quello della “scolastica crociana”, che insegnava a separare il singolo canto (la singola “lirica”) dall’insieme del “poema” (la struttura non poetica) e faceva prevalere una degustazione espressionistica del brano, oltre a separare la poesia dalla struttura-nonpoesia, cioè dalla filosofia, dalla storia, dalle religione, dall’arte. Quando quei ragazzi, una volta laureati ed abilitati, poterono leggere Dante nelle aule scolastiche ad altri ragazzi, nella loro lettura penetrò subito un vento di rinnovamento. C’è un nome, fondamentale in quegli anni, che dice molto del Dante dei Sessantottini, quello di Eric Auerbach, uno studioso fino ad allora un po' emarginato. E c’è una prova tangibile di come Dante appassionasse giovani insegnanti e giovanissimi studenti anche negli anni di piombo: la produzione quantitativamente e qualitativamente notevole dell’editoria scolastica. Nuovi commenti, raccolte di pagine critiche, vere e proprie guide. Ma non era più il Bignamino con la parafrasi, con il suntino e con cerchi, gironi, balze e cieli ordinatamente disegnati; erano invece strumenti di comprensione agili e aggiornati, per orientare la lettura personale di ragazze e ragazzi. Forse occorrerà raccontarla meglio questa storia e raccontarsela senza compiacenti bugie: si scoprirà come gl’insegnanti del Sessantotto e i libri che “adottavano” comunicassero un Dante insieme più storico e più attuale, un Dante nuovo capace di fare il paio con il nuovo Leopardi combattivo e combattente. Funzionava: luoghi e personaggi della Commedia entravano nell’immaginario e i versi danteschi nella memoria.

Ci fu un momento però, dalla metà degli anni Ottanta, che incontrammo qualche difficoltà in più nel far leggere ed amare Dante. Ce la prendevamo con le tante (troppe) distrazioni, con i nostri colleghi del Ginnasio o delle Medie, che non ci consegnavano più ragazze e ragazzi capaci di comprendere il senso generale senza star troppo a pensarci su. Avvertivamo la dilatata potenza dell’immagine visiva che rendeva più difficile e raro l’approccio verso il racconto poetico, anche quando si trattasse di un Dante o di un Ariosto.

Mi dicono che, da quando ho lasciato il mestiere d’insegnante, il peso di Dante nei programmi scolastici si è ridotto, che la lettura della Commedia, ormai da qualche tempo, non accompagna più l’intero triennio di studi. Colleghi di qualità mi dicono che non ho neppure l’idea di quanto rapida e precipitosa sia stata la caduta nella qualità dell’educazione letteraria; ed aggiungono che la reimmissione del Purgatorio e del Paradiso negli ultimi due anni di media superiore che io salutavo con gioia rimarrà probabilmente sulla carta, essendo preclusa dalla scarsa preparazione di base la lettura, rapida ma intensa, che si richiederebbe.

Temo che abbiano ragione. Ma con tutto ciò il Sessantotto non c’entra niente. Tutt’al più potrebbe entrarci (e solo marginalmente) il Settantasette e un certo “luddismo culturale” che lo impregnò. Ma assai più questi processi hanno un rapporto con lo sbandamento e il disorientamento, con la perdita del senso storico e critico delle nuove generazioni, con la pervasività del sistema mediatico, con i suoi contenuti caratterizzanti e le sue gerarchie interne. Io credo che, in Italia e in Europa, la caduta verticale cominci quando la televisione commerciale inizia la colonizzazione pubblicitaria dei cervelli e che l’accelerazione del processo sia collegata ai trionfi di questo tipo di tv. Insomma: diamo al Sessantotto quel che è del Sessantotto, diamo a Berlusconi quel che è di Berlusconi.

1 commento:

falilulela ha detto...

Analisi lucida che non posso che condividere.

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