1.8.13

Nostalgia. Il ritorno non guarisce (di Silvia Calandrelli)

Un recensione che è anche una prima ricognizione su un tema culturale importante. Si rievoca, tra l’altro, la rinascita e il successo della parola nostalgia. Dico “rinascita più che “nascita”, perché il termine è documentato in Omero che soleva formare una parola nuova da due vecchie. Usato (in pochissimi casi, due, se non ricordo male) a proposito di Ulisse non ebbe nell’antichità successo e seguito. (S.L.L.)

(…) Ci sono esilii interiori, non per questo meno crudeli e velenosi. A questa geografia interiore, a quella cruda esperienza di allontanamento e fuga, hanno da sempre guardato moltissimi scrittori e poeti, questo diventando loro tema di vita e di letteratura... Sempre con la tensione del ritorno, sempre con la paura di rimettere piede in patria, sempre con le parole accese d'ira per le terre che via via li adottavano e per quella che li aveva rifiutati. «Noi umani siamo ora una razza straniera, contrassegnata dall'assenza e l'assurdità delle nostre vite risuona dentro di noi». Paròle del sudafricano Breitenbach, ma che potrebbero essere di altri come Wiesel. Manea, Galeano, Giabra Ibrahim Giabra, Kanafani, Brodskij, Darwich, Ngugi wa Thiong'o, Paz, Puig, Milosz... Solo qualche nome. Se Lamartine nel secolo scorso affermava «non vi è nulla in comune tra la mia terra e me», è con questo secolo che quella frase ha acquistato un rilievo prima impensabili.
C'è un sentimento che accomuna tutti, scrittori e boat people: la nostalgia. «Alla condizione dell'esilio, alla sua rappresentazione si addice la nostalgia: ma il desiderium patriae scava solitudini, consuma speranze», scrive Antonio Prete presentando la bella monografìa Nostalgia, storia di un sentimento (Cortina 1992). Una raccolta di testi (di Kant, Starobinski, Von Haller, Rousseau, Pinel, Jankelevitch, Boisseau) che riserva una perla: per la prima volta viene pubblicata la Dissertatio medica preparata nel 1688 da Johannes Hofer (1669-1752). Là il conio della parola nostalgia, originata dalla fusione di nostos (ritorno) e algos (dolore). Prima di allora non esisteva un termine capace di raccogliere con tanta efficacia il sentimento di sradicamento che prova chi è costretto a vivere lontano dalla terra madre, nel caso di Hofer l'oggetto di studio erano i soldati svizzeri. «Cosicché per il significato della parola, Nostalgia starà a significare la tristezza ingenerata dall'ardente brama di ritornare in patria», spiegava Hofer.
Da allora quel termine è diventato tanto comune che forse se ne è persa la ricchezza, dimenticate le variegate sfumature d'esperienza che la compongono. Il senso di estraneità, il sentirsi in nessun luogo, la mancanza di familiarità: la vita dell'esule si muove lungo i costretti itinerari segnati da queste emozioni in un continuo risuonare di evocazione della propria lingua originaria e del suo stridere con la nuova. Dove lingua indica gli spazi di ignote città, i volti stranieri che riflettono l'immagine ben altrimenti straniera dell'esule. Tutta la realtà circostante perde forma e peso, si è guidati dalle ragioni interiori che rivolgono lo sguardo al passato, alla perdita, all'abbandono, all'assenza, alla separazione.
«La nostalgia è una melanconia umana resa possibile dalla coscienza, che è coscienza di qualcosa d'altro, coscienza di un altrove, coscienza di contrasto tra passato e presente, tra presente e futuro. Questa coscienza scrupolosa è l'inquietudine del nostalgico», osserva Jankelevitch. E poco oltre parla di doppia vita dell'esule, «qui e là, né qui né là, presente e assente, due volte presente e due volte assente». In nessun luogo appunto.
E' condizione di chi ha esperienza dello sradicamento, forzato a vivere altrove, ma è condizione anche di colui che fa esperienza di sradicamento interiore. Non più la patria dunque: ai connotati geo-politici si sostiuisce l'individuo, l'identità, l'io, la solitudine dell'esserci. La malattia dei soldati svizzeri indagata dal giovane medico Johannes Hofer diviene, nella storia letteraria, passione catturata dai poeti, «si apre in un ventaglio di sensi, sfuma nell'indefinito, si contamina con tutte le forme di una sensibilità che conosce l'abbandono alla reverie e il bianco torpore dello spleen, diviene insomma la sponda sensitiva e increspata della memoria» (Prete).
Si lascia così, nella storia di questa straordinaria parola, il terreno delle patologie per occupare la dimensione dell'anima. E la nostalgia diviene l'emozione nella quale riverbera il senso di finitezza della nostra vita. Emozione del lutto e della vecchiaia, del tempo conclusivo, rivelazione ineludibile che il ritorno, di cui si era coltivata l'illusione, non è dato. Nell'esperienza del lutto presto la rabbia, la delusione e il dolore lasciano il campo allo struggimento della nostalgia, mezzo grazie al quale si perpetua l'amore, unica possibilità di colmare il senso di vuoto. L'iniziale torpore del dolore, stordente per chi rimane, si tramuta nella coscienza lucida della separazione, della detrazione che una volta di più si è ripetuta. Una cosciente nostalgia che rimane costante, pervasiva, incancellabile: rimpianto dolente per la scomparsa di una parte di sé.
«Il vero oggetto della nostalgia non è l'assenza contrapposta alla presenza, ma il passato in rapporto al presente; il vero rimedio per la nostalgia non è il ritorno indietro nello spazio ma la retrogradazione verso il passato nel tempo» scrive ancora Jankelevitch. Di nuovo accomunati si ritrovano il senza patria e lo straniero a se stesso, l'esule e l'uomo invecchiato. Per nessuno il ritorno è analgesico al dolore. Se anche riuscisse, il ritorno non sarebbe ritorno nel tempo. Itaca e Penelope sono altro dal sogno e dal ricordo, altro è Ulisse, che si chiude in un silenzioso pianto. Il ritorno non guarisce la nostalgia dell'esule, semplicemente perché non vi sarà mai vero ritorno.

“latalpalibri – il manifesto”, 17 luglio 1992

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