4.5.14

Intervista a Luiz Ruffato, romanziere del nuovo Brasile (Marco Peretti)

Prima della scrittura mille mestieri diversi
Un dialogo con l’autore che in Come tanti cavalli e in Sono stato a Lisbona e ho pensato a te ha descritto aspirazioni e inquietudini del proletariato urbano nel suo paese. Un paese, nota, protagonista attualmente di una delle maggiori rivoluzioni sociali di tutti i tempi. Prima di diventare scrittore, Luiz Ruffato, nato nel 1961 a Cataguases, nello stato di Minas Gerais, ha fatto i classici mille mestieri: ha venduto pop-corn, è stato cameriere, commesso, operaio in un'industria tessile, tornitore metallurgico, giornalista, libraio e ristoratore.

Oggi è considerato uno dei romanzieri più interessanti della letteratura brasiliana contemporanea e i suoi libri sono stati tradotti in diversi paesi. In Italia di Ruffato sono usciti Come tanti cavalli (Bevivino 2003) e Sono stato a Lisbona e ho pensato a te (La Nuova Frontiera, 2011).
Tra le ragioni che spiegano perché i romanzi brasiliani più graditi dal mercato editoriale siano quelli ambientati nelle favelas (ovviamente con annessa «fauna» marginale) c’è che si prestano facilmente a immediate e trainanti riduzioni televisivo-cinematografiche. Se al centro della narrazione c’è un adolescente che sogna il suo riscatto sociale, esitante tra un incerto e modesto futuro lavorativo e una più concreta ascesa criminale nelle gerarchie del narcotraffico, comprarne i diritti potrebbe essere un affare. Autori e critici continuano a discutere se sia ancora opportuno presentare così il Brasile di oggi, ma nel frattempo il dominio di questa «dialettica della marginalità», aumentando in intensità e dosi la violenza rappresentata, si consolida.
Gli interlocutori più ricettivi, tra l’altro, continuano a essere quei lettori benestanti in grado d’investire tempo e reals in cinema e letteratura. Commossi, ogni volta, ringraziano per aver finalmente scoperto quel che succede ai margini dei palazzi blindati nei quali vivono asserragliati. Chi non crede nella loro distratta filantropia e prova fastidio quando si esibiscono in entusiastici paralleli estetici tra le Città di Dio di Rio e le borgate romane di Pasolini, li accusa di «voyeurismo della miseria».
È una salutare anomalia, quindi, che il protagonista del breve romanzo del brasiliano Luiz Ruffato, Sono stato a Lisbona e ho pensato a te (traduzione di Gian Luigi De Rosa, La Nuova Frontiera), sia un modesto impiegato della Sezione Pagamenti della Companhia Industrial Cataguases, un lavoratore con tanto di busta paga, moglie e figlio da mantenere e madre premurosa che finirà per morire di crepacuore. Sarà lui stesso a raccontare i motivi del suo licenziamento e le ragioni che lo hanno convinto a cercar fortuna in Portogallo. Lascerà la sua Cataguases, una piccola cittadina nel Minas Gerais, negli anni ’60 uno dei poli industriali che contribuì alla modernizzazione del Brasile. A quel tempo, i coniugi Ruffato (e il cognome ne tradisce le origini) l’avevano scelta per offrire ai figli una vita migliore e non è casuale che dagli spazi in decadenza di Cataguases s’irradi quasi tutta la letteratura del loro Luiz. Frammenti, racconti, romanzi che si soffermano su singole vite e mete collettive di un itinerario forzato. Tappe di quel continuo movimento migratorio – di andata e mancato ritorno –, sempre e comunque centripeto, imposto da urbanizzazioni, modernizzazioni, globalizzazioni.
Comincerei l'intervista, per quanto possa sembrare insolito, da una nota canzone di Chico Buarque de Hollanda, Construçao. Considerando nel complesso i suoi testi, potremmo definire il suo progetto di scrittura come un tentativo di rendere meno anonimo il quotidiano di quel lavoratore urbano che, altrimenti, verrebbe ricordato soltanto perché morendo ha intralciato il traffico e lo shopping di un sabato metropolitano?
Credo che almeno nell’intenzione il mio progetto letterario sia un po’ più ambizioso. La letteratura brasiliana non ha mai dato spazio alla rappresentazione del lavoratore urbano. Abbiamo rappresentato molto bene i diversi strati della società brasiliana, la borghesia e la piccola-borghesia urbana, l’aristocrazia terriera e i contadini, persino il sottoproletariato. Ma curiosamente il proletariato urbano non ha trovato mai espressione nelle pagine dei libri brasiliani. È stato rappresentato qua e là il sindacalista, come nelle opere di Jorge Amado, per difendere più un’idea di lavoratore (idea, per inciso, in generale romantica, manichea) che non propriamente la vita del lavoratore. La mia ambizione è stata di creare un universo in cui il lavoratore urbano, con i suoi desideri, le sue frustrazioni, le sue contraddizioni, comparisse come protagonista. Così, nella serie Inferno provvisorio, composta da cinque volumi, tento di comprendere la storia del Brasile degli ultimi cinquant’anni, in cui siamo passati da una società rurale a una società post-industriale, senza avere il tempo per assimilare i mutamenti sostanziali di questo processo.

Una scelta in controtendenza, visto che gran parte della letteratura contemporanea brasiliana continua a privilegiare, per dirla con Rubem Fonseca, «i vagabondi alla periferia del capitalismo». Materiale tematico più duttile e all’occorrenza antisistema, tipico prodotto delle città post-industriali e quindi più adatto a una scrittura postmoderna…
A dire il vero, il marginale, il lumpenproletariat, non mi ha mai interessato come tema per i miei libri. Questo tipo ha una sovraesposizione nella letteratura brasiliana (l’ha sempre avuta, fin dal Romanticismo, con i suoi galanti banditi rurali), costruito in genere a partire da una prospettiva idealizzata di eroe antisistema. Le origini dei nostri problemi, evidentemente, cominciano con una constatazione, quella che siamo una società fondata su una impressionante ingiustizia sociale, ma sinceramente, credo che se ci lasciamo ingannare da questa semplice constatazione, non comprenderemo la complessità del problema. La questione sociale rimane ancora oggi fonte di ingiustizia e promotrice di violenza, ma almeno altre tre questioni devono essere prese in considerazione: il traffico di droga, la corruzione (vale a dire il senso di impunità) e i grandi movimenti migratori. Per me, infatti, quest’ultimo elemento, sempre trascurato quando si discute della violenza urbana in Brasile, è di fondamentale importanza per capire il problema. La nozione di «non-appartenenza» che prevale tra imigranti interni, spinti dalle loro regioni verso Rio de Janeiro e San Paolo per essere utilizzati come manodopera a basso costo per il rapido processo di industrializzazione, spiega più di tutto il resto. Ed è proprio questo tema, la perdita dell’identità – qualcuno che ormai non appartiene più alla terra d’origine,ma non appartiene ancora neanche al luogo dove vive – che dà forma alla mia letteratura.

Con le microstorie di Come tanti cavalli (Bevivino editore) lei ha descritto le pene di San Paolo e dei tanti nessuno (marginali o lavoratori che siano) che ne compongono il mosaico, racchiudendole in ventiquattr’ore che sembrano un’eternità. Subito dopo, come ha detto, ha intrapreso un progetto di «macrostoria» in cinque volumi, la saga di una comunità di lavoratori immigrati italiani che ha per titolo, appunto, Inferno provisorio. Perché questo titolo, perché provvisorio?
Inferno provvisorio perché, appunto, ancora non definitivo. È una visione ottimistica del cammino che può compiere il Brasile. L’inferno in cui siamo può essere provvisorio, vale a dire possiamo trasformare questo paese in un paradiso o in un inferno definitivo. Io credo nella prima ipotesi ...

Sono stato a Lisbona e ho pensato a te invece non fa parte della «pentalogia» e questa volta il migrante è un brasiliano. Dal titolo ci si aspetterebbe una storia d’amore. In realtà Serginho, sperimentando come Lisbona non sia un paradiso, sembra pensare con un certo affetto soprattutto alla sua decadente Cataguases, a se stesso in qualche modo…
Non fa parte del ciclo Inferno provvisorio, così come non ne fanno parte Come tanti cavalli e De mimjá nem se lembra, ma tutti convergono nella discussione della stessa problematica: quella dello «sradicamento». Perché Serginho, lasciando Cataguases, la sua città natale, dove non riesce a trovare un lavoro e dove la sua prospettiva di vita è piuttosto limitata, idealizza il Portogallo (l’Europa) come via di fuga dalle sue frustrazioni. Quando arriva a Lisbona e affronta la dura realtà dell’emigrante, rendendosi conto che anche lì non ha prospettive di vita migliore, idealizza Cataguases. È sempre così per chi non ha radici: il luogo dove sta non corrisponde mai alle aspettative.

C’è una nota che anticipa il romanzo («Quel che segue è la testimonianza, leggermente modificata, di Sérgio de Souza Sampaio, nato a Cataguases – Minas Gerais, Brasile»). Sembrerebbe che voglia invitarci a considerarlo oltre che narratore, anche autore. Testimone di se stesso e non per suo tramite. È così?
In effetti, la nota che anticipa il romanzo è un procedimento narrativo che cerca di dare verosimiglianza a quel che si narrerà. In questo caso, per dare consistenza alla storia di Serginho ho preferito la prima persona, ma non una prima persona qualsiasi, una prima persona «reale» la cui spontanea testimonianza sarebbe stata raccolta in un luogo e in una data specifica. Così, penso, Serginho potrebbe esporre, senza intermediari, il suo dolore, la sua angoscia, la sua incomprensione
dell’universo.

Se ci fermassimo qui, chi non ha letto ancora i suoi testi potrebbe pensare a un nuovo «romanzo proletario» alla Jorge Amado. In realtà, le differenze saltano agli occhi, a partire dalla sperimentazione grafica o dal linguaggio dei suoi personaggi. Per non parlare del tempo lineare che scompare per lasciar spazio alla molteplicità di tempi narrativi, a una sorta di ipertesto, insomma, più «concretismo» che neorealismo.
In realtà mi piacerebbe essere riconosciuto come una persona che fa Letteratura, senza aggettivi, e il
cui tema è il proletariato urbano. Quel che distingue fondamentalmente la mia prospettiva da quella di Jorge Amado, per esempio, oltre al fatto che non c’è idealizzazione dei personaggi proletari, è la questione formale. Amado è figlio del Naturalismo, con i suoi romanzi a tesi e il suo linguaggio impoverito. Io flirto con la tradizione dell’antiromanzo borghese, il romanzo sperimentale, che ha le sue radici in Don Chisciotte e Tristram Shandy, passando per Joyce, Faulkner, il nouveau roman, l’Oulipo. Insomma, cerco di fare un romanzo onnivoro, non realista, non naturalista.

Quindi tenendo conto dell’importanza che ha per lei l’intertestualità, anche la divisione in due parti della storia di Serginho («Come ho smesso di fumare» e «Come ho ricominciato a fumare») ha qualche parentela con i problemi di "Coscienza (di Zeno)" di Italo Svevo?
Senza alcun dubbio. Colloco Svevo nella stessa «nicchia» avanguardista che ho elencato prima. Basta ricordare che Svevo aveva un rapporto molto stretto con Joyce...

In qualche modo, però, in un senso politico, si corre il rischio di dover rimpiangere l’epica di un certo regionalismo neorealista, perché lì c’era speranza nel futuro o, perlomeno, valori condivisi. Serginho, al contrario sta solo. Cambiano i coroneis ma nelle loro mani rimane a disposizione sempre un «esercito di riserva». A suggello della sua precaria esperienza a Lisbona anche lui come gli «affittati» delle piantagioni di Cacao potrebbe dire «nasciamo già vinti». O non è così?
Questa visione pessimista, che indicava una sola via d’uscita possibile, la rivoluzione, non fa parte del mio repertorio. In realtà, la via d’uscita è possibile ed è quel che sta accadendo oggi in Brasile. Il paese doveva avere un operaio alla presidenza della Repubblica, un uomo di poche letture, ma con un vissuto interiore straordinario, per perseguire un nuovo posto nel mondo. Oggi il Brasile, piaccia o no ai critici, è protagonista di una delle più grandi rivoluzioni sociali di tutti i tempi. Mai così tante persone, più di trenta milioni, hanno cambiato lo statuto sociale in una sola volta e in così poco tempo. E senza che fosse versata una sola goccia di sangue. Noi, al contrario, non nasciamo sconfitti, noi nasciamo per la vittoria …

il manifesto 8 novembre 2011

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