24.5.14

L'azzardo di Vasco Pratolini (Mario Lunetta)

Vasco Pratolini non appariva più da gran tempo, nello stolido festino dei simulacri che è tanta parte della nostra cronaca letteraria attuale. Era malato, e lo si sapeva: ma la sua era soprattutto, credo, una malattia del rifiuto. Perché lo scrittore fiorentino conservava tenacemente, da sempre, quel gusto di preservarsi dalla volgarità trionfante per virtù di dignità ed intelligenza, che aveva espresso per la prima volta con subitanea freschezza nel racconto più bello del suo libro di esordio: «...imparavo a guardare più a fondo gli uomini e le cose, almeno fino al fondo di me stesso, se non al fondo di esse cose e di essi uomini». 
Pratolini aveva avuto in sorte una felicissima vena di affabulatore lirico e un occhio puntuale e veloce di cronista del quotidiano municipale, e magari rionale. Si era già all'altezza di Cronache di poveri amanti, che è del '47: e il narratore si era ormai conquistato una fama e un'etichetta, che finì per fortuna con lo stargli progressivamente sempre più stretta. Sia detto, tutto ciò, senza nulla togliere alla verità e al nitore bozzettistico-elegiaco di quest'ultimo libro o di Via de' Magazzini, e con tutto il doveroso rispetto per il taglio intimistico-memoriale assolutamente «giusto» di un testo come Cronaca familiare (1947). La forza e il senso della parabola attiva del narratore stanno nel sempre più consapevole opporsi al suo delicato dèmone ulteriore di nativa immediatezza sentimentale risolta in bella prosa cantabile, per imboccare decisamente una strada ben più irta di rischi e di contraddizioni, ma anche assai più ricca di risultati moderni. 
Progressivamente entra in ombra il sapido favolista, il felicissimo aedo popolare capace di feline occhiate plebee, e si forma lo scrittore meditativo che ambisce a farsi storico della società fiorentina tra fine Ottocento e fascismo. È chiaro che il passaggio e il relativo mutamento di pelle, quindi di struttura e di scrittura narrativa, non deve essere stato indolore. Basta a dimostrarlo un libro come MeteJJo (1955), che sta ancora in mezzo al guado tra remore naturalistiche e ambizioni straniate e anti-mimetiche. Ma ormai Pratolino lavora sull'azzardo, saggiando con imperterrita determinazione autocritica le possibilità di un grande affresco la cui trilogia prende nome di Una storia italiana le cui fasi sono appunto Metello, Lo scialo (1960), Allegoria e derisione (1966). Pratolini è maturo per il suo grande libro. E il libro, che ne fa un narratore di statura europea, è Lo scialo. Oltre le polemiche che all'interno della critica di sinistra aveva suscitato Metello, oltre l'uso pervicacemente ideologico di categorie come «realismo» e «decadentismo», lo scenario che Lo scialo apre reclama fin dal suo apparire altre ragioni analitiche e altre ottiche interpretative. Chi a sinistra lo accoglie con diffidenza moralistica, mostra in realtà di temerne non la mancata fedeltà alla rassicurante vena idillica propria del Pratolini doc, quanto la disgregazione di un universo della pacificazione storicistica in favore di una scelta a suo modo «sperimentale», che nella storia vede una serie di oscure fratture e di salti senza rete. L'affresco crono-storico non interessa più Pratolini: lo intrigano ormai, disperatamente, i labirinti del comportamento in relazione a un guado sociale dissestato e livido. Il fascismo, anche ne Lo scialo, non ha nulla di ideologico: è piuttosto, si direbbe, un morbo della coscienza, un portato della corruzione collettiva. Con la sconfìtta storica quale quella del movimento operaio dopo la prima guerra mondiale, cresciuta anche sulla debolezza e l'insipienza strategica di forze di progresso e di democrazia, oltre che sul furore di revanche della reazione di classe, poteva facilmente tradursi in un nobile arazzo narrativo, moderato sia sul piano della visione che su quello delle opzioni linguistiche.
Pratolini sceglie l'eccedo e il caos. Tutto questo verminoso materiale di macerie e di frettolosì restauri non lo illustra, come gli era capitato di fare in precedenti occasioni: lo porta alla luce, al contrario, per frammenti all'improvviso illuminati da una luce sinistra: per gestualità significanti;per allusioni losche: per la scelta di bassezza e di ferocia. Senza un filo di immoralismo, Lo scialo è il grande quadro di un'epoca laida e disperata dipinto da uno scrittore dotato di straordinaria coscienza etica. I suoi dinamismi interni, i suoi scorci secchi, i suoi dialoghi trasognati o nevrotici sono la disposizione stilistica di questa coscienza, il suo spessore anche sanguinoso. E non è un caso che, in un libro attraversato dal sangue anonimo, il sipario si chiuda con un flash degno del Pasticciaccio gaddiano. Sulla morte violenta di una donna che è emblematicamente la Signora, davvero come allegoria e come derisione.
La Storia è un sorriso pietrificato su un viso che è già un teschio, come diceva Benjamin: «La Signora non era né sulla sua poltrona davanti allo specchio, né dietro il suo secrétaire dove alcuni fogli erano sparsi, né sul suo letto ancora con i materassi arrotolati. Ma nel suo bagno, nell'acqua della vasca tutta rossa del suo sangue, e con la testa reclina sulla spalla, il corpo nudo immerso all'altezza della gola, trattenuto dal braccio che faceva resistenza sul bordo della vasca, bianchissima dentro quel rosso su cui batteva il sole. Gli occhi chiusi; e nel suo volto, una quiete, come un sorriso che non le era mai appartenuto».


il manifesto, 13 gennaio 1991

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