31.5.14

Fisica. Boltzmann, la scienza e la verità (Luigi Cavallaro)

Ludwig Boltzmann nel 1872
Wittgenstein lo inserì in cima all'elenco (non lungo) di coloro che lo avevano influenzato. Lenin ne elogiò la gnoseologia, che «in sostanza è materialistica ed esprime l'opinione della maggioranza degli scienziati». Popper confessava di sapere della sua filosofia molto meno di quanto avrebbe dovuto e tuttavia dichiarava di condividerla «più da presso, forse, di qualsiasi altra filosofia». Eppure mancava una traduzione italiana delle conferenze (pubblicate originariamente nel 1905 con il titolo di Populare Schriften) nelle quali il fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906), noto per i suoi contributi fondamentali allo sviluppo della teoria cinetica dei gas e della termodinamica statistica, aveva esposto le sue idee filosofiche sulla scienza e, in particolare, sulla fisica teorica. Benvenuta, pertanto, l'iniziativa editoriale di pubblicarne un'ampia selezione (Modelli matematici, fisica e filosofia. Scrìtti divulgativi, a cura di C. Cercignani, Bollati Borin-ghieri, 1999, pp. 210, £. 35.000), tanto più che la lettura ne rivela una perdurante attualità.
In un certo senso, infatti, l'epistemologia di Boltzmann contiene la prima consapevolezza della «inevitabilità» del cambiamento di idee nella scienza e, insieme, il tentativo di evitare gli esiti relativistici che hanno segnato il dibattito sulla gnoseologia nel Novecento. «Se consideriamo più da vicino il processo evolutivo della teoria - scrive Boltzmann oltre mezzo secolo prima di Kuhn - salta agli occhi per prima cosa che esso non ha luogo in modo così continuo come ci si aspetterebbe, ma è anzi pieno di discontinuità». Proprio quando si ritiene che i metodi utilizzati abbiano dato i migliori risultati possibili, «all'improvviso questi metodi risultano esauriti e ci si sforza di trovarne di completamente nuovi e disparati. Si sviluppa allora una lotta fra i sostenitori dei vecchi metodi e gli innovatori. Il punto di vista dei primi viene definito dagli oppositori come antiquato e superato, mentre questi insultano gli innovatori in quanto corruttori dell'autentica scienza classica». E non è detto che dal confronto qualcuno sortisca «vincitore»: è anzi concepibile «la possibilità di due teorie completamente differenti che siano entrambe semplici e concordino ugualmente bene con i fenomeni e che dunque, sebbene completamente diverse, siano entrambe ugualmente giuste». Ma ciò ovviamente pone un problema: che ne è della pretesa della scienza di giungere alla «verità oggettiva»?
Sono noti gli esiti del dibattito, sviluppatosi particolarmente nella seconda metà di questo secolo: le teorie scientifiche sono state progressivamente declassate al rango di semplici «convenzioni linguistiche» e gli «oggetti fisici» (enti teorici o osservabili che fossero) sono stati ridotti a meri «postulati culturali, paragonabili, da un punto di vista epistemologia), agli dèi di Omero» (W.V.O. Quine). In mancanza di un criterio oggettivo che consentisse di decidere quale, tra due teorie rivali, fosse quella giusta e quella sbagliata, il postulato della «referenzialità extralinguistica» degli oggetti fisici - cioè l'idea che ad essi corrisponda una qualche «realtà oggettiva» - è stato per lo più abbandonato. E le conseguenze cominciano a manifestarsi pesantemente, se è vero - come ci ricorda Marco D'Eramo (il manifesto, 20 agosto) - che più della metà degli statunitensi crede che la terra sia stata creata da Dio poco più di 10.000 anni fa e sulla stampa americana si arriva a leggere che il creazionismo è un'ipotesi buona come l'evoluzionismo su come è cominciato l'universo. Tuttavia lo scienziato Boltzmann rifiuta un approdo solipsistico e continua a professarsi «materialista»: «l'idealismo asserisce che esistono solo l'Io e le varie idee, cercando di spiegare la materia a partire da queste. Il materialismo parte dall'esistenza della materia e cerca di spiegare le sensazioni a partire da questa» (chi ha letto Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin riconoscerà il nocciolo della tanto vituperata «teoria del riflesso»).
Il problema è che l'adesione al materialismo rischia di restare una «professione di fede» se non si chiarisce teoricamente in che modo il venir meno di certezze scientifiche «assolute» non debba metter capo al riconoscimento dell'arbitrarietà di ogni teoria: e qui Boltzmann manca l'obiettivo, giacché una volta ammesso che «può essere una questione di gusti» lo stabilire «attraverso quale rappresentazione dei fenomeni ci sentiamo più soddisfatti» , la strada per affermare che «l'attuale separazione tra scienza e arte è del tutto artificiale» (come dirà poi Feyerabend) è spianata. Si trova, è vero, in lui la consapevolezza della inevitabile «limitatezza» di ogni teoria e l'intuizione che lo scetticismo gnoseologico e la tentazione solipsistica sono il frutto (marcio) dell'«eccessiva fiducia nelle leggi del pensiero». Gli manca, tuttavia, la comprensione del legame dialettico tra il materialismo filosofico e il processo di sviluppo della conoscenza scientifica, di cui pure coglie la dinamica. E il «guaio fondamentale» del materialismo «metafisico» sta proprio, dirà poi Lenin, «nell'incapacità di applicare la dialettica alla Bildertheorie [teoria del riflesso, del rispecchiamento, ndr], al processo e allo sviluppo della conoscenza».
Come ha scritto Giulio Giorello, per conto sarà proprio Lenin a mostrare la razionalità dell'atteggiamento di chi, come Boltzmann, manteneva una concezione materialistica della conoscenza pur ammettendo che «le idee che ci formiamo intorno agli oggetti non sono mai identiche alla natura di questi ultimi» e a teorizzare la limitatezza storica di ogni costruzione scientifica. «Il rispecchiamento della natura nel pensiero dell'uomo», scriverà Lenin, non è «senza movimento e senza contraddizioni»; proprio per ciò, il susseguirsi delle teorie, il mutare dei «paradigmi» (o, lakatosianamente, dei «programmi di ricerca»: espressione, questa, che ricorre proprio in Boltzmann) non dimostra affatto che si tratta di «semplici convenzioni», ma rivela, secondo Lenin, «il carattere transitorio, relativo, approssimato di tutte queste tappe della conoscenza della natura da parte della scienza umana che progredisce» e, soprattutto, che esiste un movente che ci costringe via via a modificarle, sintomaticamente rivelato dalle kuhniane «anomalie»: «l'infinita approssimazione del pensiero all'oggetto [...], nell'eterno processo del movimento, del porsi e del risolversi delle contraddizioni».


“il manifesto”, 2 settembre 1999

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