6.5.14

Lazarillo de Tormes, un capolavoro ritrovato (Giuseppe Paolo Samonà)

Una illustrazione di Frank Martin per una edizione USA del "Lazarillo"
Un povero mugnaio processato per furto ed esiliato, una madre vedova che fa la lavandaia per tirar su i figlioletti, un bambino orfano e denutrito che si mette a servizio di un mendicante cieco, di un prete sordido e avaro e di uno scudiero millantatore e povero, ed è costretto a subire ogni sorta di privazioni e di angherie... Potrebbero essere gli ingredienti tipici di un romanzo ottocentesco, magari d'epoca vittoriana, destinato alla proba commiserazione dei lettori borghesi e al pianto delle giovinette. Invece sono i personaggi, e i primi avvenimenti, di un capolavoro della narrativa classica, spagnolo e non inglese: il Lazarillo de Tormes, dato alle stampe verso la metà del Cinquecento e rivolto a un pubblico più incline, con ogni probabilità, a divertirsi e a sorridere beffardamente che a versare lacrime.
L'occasione di riproporne la lettura e di metterne in luce, se è possibile, alcuni aspetti ancora controversi (tanto più attuali e godibili, comunque, nella loro ambiguità) ci viene da una recente riedizione italiana (Anonimo, Vita di Lazarillo de Tormes e delle sue fortune e avversità, a cura di Rosa Rossi, Editori Riuniti, pagg. 73, lire 2.700), in cui la vecchia traduzione della Rossi, già apparsa nel 1967, è accompagnata da una nuova introduzione critica opportunamente aggiornata (della stessa Rossi) e dal corredo delle preziose illustrazioni ottocentesche di Meissonniet.
Niente, in effetti, è più lontano dal Lazarillo de Tormes che il moralismo edificante della povertà derelitta; niente gli è più estraneo di una qualsiasi petizione di affetto o tentativo di seduzione rivolti al decoro sociale e ai buoni sentimenti dei lettori. La prima virtù di quest'opera concentrata e crudele è la sobrietà. L'autore, rimasto anonimo probabilmente per ragioni di prudenza (siamo in Spagna, agli albori della Controriforma), è riuscito a escludere dal proprio testo tutto ciò che non è narrazione pura. Egli è debitore, sul piano dei contenuti, d'una tradizione medievale ricca di apologhi, «historietas» e «fabliellas» per lo più di taglio popolare, dove la degradazione sociale è già apparsa nei toni più crudi e ha dato vita a un'ampia e pittoresca tipologia di reietti; ma si rivela un potente innovatore sul piano del gusto, delle scelte linguistiche, della capacità di rielaborazione dei modelli di cui può disporre. Non inventa nulla di nuovo, forse, ideando il furfantello servitore di molti padroni, il prete sfruttatore o il mendicante abbietto; crea, però, un prototipo della «novela picaresca», e del romanzo moderno in genere, quando combina assieme tutti questi elementi alla luce di una nuova prospettiva strutturale.
Il suo segreto è la straordinaria forza dell'«io narrante». Si può dire che una nuova civiltà del racconto nasce, in Europa, nel momento in cui l'autore del Lazarillo ha il coraggio di far credere ai suoi lettori che una storia come quella — la storia di un miserabile accattone e delle sue squallide avventure — possa essere narrata in prima persona da lui stesso; e per di più senza il puntello di cornici allegoriche, di mediazioni fantastiche o volutamente fiabesche, di coperture ideologiche o moraleggianti: così com'è, insomma, come se fosse stata realmente vissuta e scrupolosamente annotata da chi ora la racconta.
Siamo, dunque, dinanzi a una finta autobiografia: e lo dimostra anzitutto lo stile, che, infallibile per potenza e schiettezza evocativa quanto è denso di cultura e di accorgimenti simbolici, rivela indubbiamente la personalità di un umanista piuttosto che il talento grezzo di uno scrittore improvvisato. Ma proprio questo è il punto. Sull'ambiguità accattone-narratore colto si fonda la segreta strategia del libro: la cui inventiva consiste essenzialmente nella capacità di ribaltare i codici della letteratura «alta», forzandoli ai bisogni e agli imprevisti di una materia servile.
Si pensi alla forza provocatoria di un simile disegno in una cultura come quella cinquecentesca, tesa a esibire in ogni campo e per ogni categoria sociale modelli di comportamento (il «cortigiano», l'«arcade», il «guerriero», il «perfetto cavaliere cristiano», e così via). Quelli di Làzaro de Tormes non sono che i piccoli arrangiamenti di un furfante; eppure, anche la sua storia adombra le cadenze di un decalogo esemplare: mima ironicamente, cioè, i codici di un'arte del vivere». Il cieco e lo scudiero sono i portatori di una finta pedagogia edificante; il bambino è l'apprendista di una finta morale di vita; l'esito di questo apprendistato — un equivoco ménage a trois che assicura a Làzaro ormai adulto la sua brava sistemazione economica — è proposto ai lettori col sussiego cinico e rassegnato di un decoroso approdo alla sfera dei benpensanti.
Oggi sono un po' passate di moda le interpretazioni in chiave sociologica del Lazarillo: non si crede più (o sembra generico affermare) che quest'opera rappresenti un tipico esempio di «realismo sociale», frutto del disagio economico di un'epoca travagliata. Eppure, il problema della forza e della qualità della sua straordinaria testimonianza resta ancora da definire.
Giustamente, da qualche tempo, si punta 1'attenzione sulle modalità squisitamente letterarie e linguistiche, si analizza il testo, se ne studiano le tematiche e l'ambiguo impianto strutturale; e con risultati spesso eccellenti (nella sua introduzione, la Rossi ne traccia una breve, sostanziosa rassegna), tanto da illuminare lunghi tratti del cammino percorso dall'anonimo.
E tuttavia continuiamo a porci la domanda: in quale ambito culturale, da quale progetto individuale un ordito di così sottile ambiguità, racchiuso nel breve arco di sette capitoli e governato, per di più, dalla ferrea economia d'uno stile magro, da relazione oggettiva, ha potuto prender forma e venir alla luce negli ultimi anni del regno di Carlo V, in pieno riflusso di tendenze eterodosse ed erasmiane, nel mezzo d'una cultura ufficiale che tende a chiudere o a disciplinare la mobilità dei suoi parametri?
Francamente non crediamo che la risposta debba cercarsi (come voleva Bataillon, con squisita sensibilità «cinquecentesca») nell'ipotesi della semplice «parodìa», dell'operetta di mero intrattenimento. C'è, in questo libro, una vocazione allo scandalo e al ribaltamento dei valori sociali, che non si può spiegare solo in termini di parodia o di divertissement. Non si dovrà credere al «realismo sociale» d'accordo; ma sarebbe altrettanto improprio disarmare il libro di quella carica implicitamente, e ironicamente, sovversiva, che rappresenta in ultima analisi la garanzia della sua piena leggibilità a distanza di quattro secoli.
In questo senso, riaccostarsi con coraggio al Lazarillo può essere istruttivo come criterio generale di lettura: può ricordarci (pensando a tanta narrativa più recente) che non ci è precluso il godimento di un romanzo per il fatto che riusciamo a percepirne anche i veleni nascosti e a coglierne l'intensità provocatoria.


“la Repubblica”, 6 settembre 1981

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