Ci sono luoghi della
memoria davanti ai quali la gente passa senza nemmeno fermarsi. Uno
di quelli è a Palermo, dove morirono Biagio e Giuditta, studenti del
Meli.
Esistono dei luoghi della
memoria obliati dallo scorrere frenetico e sempre uguale della città.
Proviamo a fermarci per un attimo, immobili, silenti e a non
spostarci per almeno dieci minuti dal quadrato ipotetico di un
marciapiede. Troviamo la nostra colonna sonora quotidiana, chi non ne
ha una, e iniziamo ad osservare tutto con spirito critico.
Scegliamo un angolo di
Palermo: la fermata dell’autobus cittadino in via Libertà
all’altezza di piazza Croci proprio di fronte il Banco di Sicilia.
Qui è possibile scorgere la frenesia cittadina, donne e uomini che
salgono e scendono dagli affollati bus, ragazze e ragazzi che
attraversano le strisce pedonali. Ci sono i ladruncoli del 101 che
ogni tanto cambiano vettura in maniera schizofrenica e irregolare.
C’è la vecchina con la borsa piena di medicine e il vecchino che
fuma e tossisce. C’è una giovane mamma con un passeggino che
piange al telefono e impreca contro il figlio maggiore che tiene per
mano. Una tzigana con due denti d’oro si avvicina offrendo la mano,
un violinista sale di corsa sul 106 per allietare i passeggeri. Una
donna in tailleur tiene stretta la sua ventiquattrore mentre dialoga
col suo ingessato collega d’ufficio, passano e come tutti gli altri
non si accorgono di nulla.
Ma di cosa dovrebbe
accorgersi questa città che corre come una metropolitana? Che non si
ferma mai per porgere il proprio pensiero alla memoria? Eppure sul
muro della fermata c’è una targa di ottone che porta incisi due
nomi e una data: Giuditta e Biagio, 25 novembre 1985. Semplice e di
una purezza disarmante, quasi si potrebbe rimanere ad osservarla come
se fosse un’opera d’arte in mezzo alle macerie di una città
ferita dalla sua stessa indifferenza. Come pure erano le anime di
questi due studenti del Liceo classico Meli che in quegli anni era
ospitato nelle stanze di quel palazzo che oggi gestisce denaro e
conti corrente.
Giuditta Milella anni 16,
Biagio Siciliano anni 15, travolti e falciati dalle macchine di
scorta dei giudici Borsellino e Guarnotta alla fermata dell’autobus,
nel loro ipotetico quadrato di marciapiede, con la loro colonna
sonora in testa a rincorrere i loro sogni adolescenti e dorati,
proprio come la targa che ancora li ricorda.
Come erano gli autunni
vestiti di primavera a Palermo? Caldi come il fuoco, gelidi come la
tensione che si avverte quando si è in guerra. Che colonna sonora
avrà avuto il giudice Borsellino in testa quel 25 novembre? Avrà
ricordato le musiche degli anni ’50, quando adolescente anche lui
frequentava quello stesso Liceo, quelle identiche aule di Giuditta e
Biagio? Che cosa avranno provato gli uomini di Stato che combattendo
ogni giorno la mafia, correndo contro il tempo si sono scontrati con
la morte? E poi come non dire con Peppino Impastato che “la mafia è
una montagna di merda”? la donna vestita di nero attraversava e
attraversa le strade della città, ha un passo pesante e deciso,
porta sulle spalle la falce del distacco, come in un film di Dreyer
non ha paura di accarezzare il volto ingenuo della purezza, mentre i
belati si attaccano con la loro drammaticità alla pancia della
nostra razionalità.
E gli occhi sorridenti di
Giuditta, lo sguardo sornione di Biagio ci inchiodano alla nostra
responsabilità. Non sono forse vittime della mafia, come lo fu la
giovane Rita Atria? Si correva negli anni ottanta a Palermo, di una
corsa diversa e inusuale per noi cresciuti portando il peso del post
stragi.
Oggi si va come treni
verso il non essere, incontro alla nostra triste ed irreversibile
sorte di indifferenti che non parteggiano più per nulla. Chissà se
i fiori di Giuditta sussultano ancora, se il gatto di Biagio lo
attende fedele alla sua porta.
Chissà quando potremo
ancora tornare a fare memoria e a raccontare ai nostri ragazzi cosa
era questa città, senza ascoltare tra le fila dei revisionisti che
la vita a Palermo era impossibile quando erano in vita quei folli di
Falcone e Borsellino che si erano messi in testa di cambiarne il
volto della Sicilia,di restituire la bellezza alla loro donna
deturpata dalla violenza mafiosa. E forse quando saremo capaci di
dedicare dieci minuti, solo dieci al nostro quadrato della memoria
tutto avrà una luce diversa e per un attimo potremo dare dignità a
chi è morto anche per noi.
Torna Palermo ad
indignarti, torna a provare orrore per la libertà negata, inizia a
pensare ad esempio che la mafia a marzo, alla Zisa avrebbe potuto
uccidere altri giovani studenti… Calpesta col tuo piede questo
serpente che mai morto ritorna con tutta la sua forza a
terrorizzarti. Soffermati per dieci minuti suoi luoghi della memoria
e piangi, di un pianto liberatorio e copioso capace di lavare le tue
strade rovinose e rovinate da una peste che neanche la Santuzza è
mai riuscita a spazzare via.
Resapubblica.it, lunedì
28 aprile 2014
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