1.5.14

Quella fermata dell’autobus di via Libertà (Mari Albanese)

Ci sono luoghi della memoria davanti ai quali la gente passa senza nemmeno fermarsi. Uno di quelli è a Palermo, dove morirono Biagio e Giuditta, studenti del Meli.
Esistono dei luoghi della memoria obliati dallo scorrere frenetico e sempre uguale della città. Proviamo a fermarci per un attimo, immobili, silenti e a non spostarci per almeno dieci minuti dal quadrato ipotetico di un marciapiede. Troviamo la nostra colonna sonora quotidiana, chi non ne ha una, e iniziamo ad osservare tutto con spirito critico.
Scegliamo un angolo di Palermo: la fermata dell’autobus cittadino in via Libertà all’altezza di piazza Croci proprio di fronte il Banco di Sicilia. Qui è possibile scorgere la frenesia cittadina, donne e uomini che salgono e scendono dagli affollati bus, ragazze e ragazzi che attraversano le strisce pedonali. Ci sono i ladruncoli del 101 che ogni tanto cambiano vettura in maniera schizofrenica e irregolare. C’è la vecchina con la borsa piena di medicine e il vecchino che fuma e tossisce. C’è una giovane mamma con un passeggino che piange al telefono e impreca contro il figlio maggiore che tiene per mano. Una tzigana con due denti d’oro si avvicina offrendo la mano, un violinista sale di corsa sul 106 per allietare i passeggeri. Una donna in tailleur tiene stretta la sua ventiquattrore mentre dialoga col suo ingessato collega d’ufficio, passano e come tutti gli altri non si accorgono di nulla.
Ma di cosa dovrebbe accorgersi questa città che corre come una metropolitana? Che non si ferma mai per porgere il proprio pensiero alla memoria? Eppure sul muro della fermata c’è una targa di ottone che porta incisi due nomi e una data: Giuditta e Biagio, 25 novembre 1985. Semplice e di una purezza disarmante, quasi si potrebbe rimanere ad osservarla come se fosse un’opera d’arte in mezzo alle macerie di una città ferita dalla sua stessa indifferenza. Come pure erano le anime di questi due studenti del Liceo classico Meli che in quegli anni era ospitato nelle stanze di quel palazzo che oggi gestisce denaro e conti corrente.
Giuditta Milella anni 16, Biagio Siciliano anni 15, travolti e falciati dalle macchine di scorta dei giudici Borsellino e Guarnotta alla fermata dell’autobus, nel loro ipotetico quadrato di marciapiede, con la loro colonna sonora in testa a rincorrere i loro sogni adolescenti e dorati, proprio come la targa che ancora li ricorda.
Come erano gli autunni vestiti di primavera a Palermo? Caldi come il fuoco, gelidi come la tensione che si avverte quando si è in guerra. Che colonna sonora avrà avuto il giudice Borsellino in testa quel 25 novembre? Avrà ricordato le musiche degli anni ’50, quando adolescente anche lui frequentava quello stesso Liceo, quelle identiche aule di Giuditta e Biagio? Che cosa avranno provato gli uomini di Stato che combattendo ogni giorno la mafia, correndo contro il tempo si sono scontrati con la morte? E poi come non dire con Peppino Impastato che “la mafia è una montagna di merda”? la donna vestita di nero attraversava e attraversa le strade della città, ha un passo pesante e deciso, porta sulle spalle la falce del distacco, come in un film di Dreyer non ha paura di accarezzare il volto ingenuo della purezza, mentre i belati si attaccano con la loro drammaticità alla pancia della nostra razionalità.
E gli occhi sorridenti di Giuditta, lo sguardo sornione di Biagio ci inchiodano alla nostra responsabilità. Non sono forse vittime della mafia, come lo fu la giovane Rita Atria? Si correva negli anni ottanta a Palermo, di una corsa diversa e inusuale per noi cresciuti portando il peso del post stragi.
Oggi si va come treni verso il non essere, incontro alla nostra triste ed irreversibile sorte di indifferenti che non parteggiano più per nulla. Chissà se i fiori di Giuditta sussultano ancora, se il gatto di Biagio lo attende fedele alla sua porta.
Chissà quando potremo ancora tornare a fare memoria e a raccontare ai nostri ragazzi cosa era questa città, senza ascoltare tra le fila dei revisionisti che la vita a Palermo era impossibile quando erano in vita quei folli di Falcone e Borsellino che si erano messi in testa di cambiarne il volto della Sicilia,di restituire la bellezza alla loro donna deturpata dalla violenza mafiosa. E forse quando saremo capaci di dedicare dieci minuti, solo dieci al nostro quadrato della memoria tutto avrà una luce diversa e per un attimo potremo dare dignità a chi è morto anche per noi.
Torna Palermo ad indignarti, torna a provare orrore per la libertà negata, inizia a pensare ad esempio che la mafia a marzo, alla Zisa avrebbe potuto uccidere altri giovani studenti… Calpesta col tuo piede questo serpente che mai morto ritorna con tutta la sua forza a terrorizzarti. Soffermati per dieci minuti suoi luoghi della memoria e piangi, di un pianto liberatorio e copioso capace di lavare le tue strade rovinose e rovinate da una peste che neanche la Santuzza è mai riuscita a spazzare via.


Resapubblica.it, lunedì 28 aprile 2014

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