5.9.15

L'orrenda parola (Achille Campanile)

 Un esilarante e delicato racconto d'amore del grande umorista. (S.L.L.)
Nella sera di giugno, gli alberi ai lati della strada erano in fiore e c'era un profumo, nell'aria, e un brusio. Conoscete, signori, quest'ora? Non è più giorno e ancora non è notte, la luce comincia a languire (chi di noi non si fermò una sera tra gli oleandri? Gli occhi di lei diventarono improvvisamente fondi, grandi e scuri nel crepuscolo). La città, ronzante e fervida come un alveare, è percorsa in tutti i sensi da auto all'impazzata. Goffredo camminava in silenzio al fianco di Silvia, accompagnandola, per la ventesima sera consecutiva, verso la casa di lei.
«Ho pensato...», disse improvvisamente al momento di separarsi decidendosi a parlare.
Silvia drizzò le orecchie; una voce interna le aveva detto: "Ci siamo".
«Ho pensato...».
Fermi all'angolo, Goffredo fissava intensamente un pezzo del marciapiede, tracciandovi sopra ghirigori con la punta della scarpa. Disse in fretta, con una voce sorda e arrossendo tutto, che ormai aveva deciso di parlare al proprio padre.
«Gli ho già accennato qualcosa», aggiunse, «e del resto, papà deve aver indovinato da un pezzo. Ma stasera gli dirò tutto».
Poi Goffredo disse, sempre in fretta, che, non appena parlato al proprio padre, intendeva presentarsi con lui ai genitori di lei; e disse a Silvia che li prevenisse e fissassero la data per un giorno della prossima settimana.
Era fuor di dubbio che il padre di Goffredo, vedovo da alcuni anni e con quell'unico figlio, avrebbe fatto tutto ciò che questi desiderava. Dopo aver parlato, Goffredo fissò per un attimo la ragazza negli occhi e scappò. Allora tutti gli alberi in fiore si misero a girare intorno a Silvia.
Poi, mentre da sola lei stava facendo di corsa gli ultimi cinquanta metri verso casa, e ancora gli alberi le giravano intorno, Silvia sentì a un tratto quasi una puntura nel cuore, come chi improvvisamente avverta il dolore d'una ferita di cui s'era un momento dimenticato, ma che è sempre lì, presente. Suo padre! Goffredo e il padre di lui l'avrebbero avvicinato, avrebbero parlato con lui. Silvia sentì come una mazzata sulla testa.
Il cavalier Odoardo era il miglior uomo del mondo, tutto cuore, incapace di far male a una mosca. Padre esemplare, insomma, benché ancora in vita. E non è nemmeno a dire che fosse poco presentabile, anzi! Giovanile, curato, addirittura elegante. Era un padre da andarne fieri. Ma una negra nube oscurava il roseo di questo cielo: il cavalier Odoardo aveva l'abitudine, in famiglia e talvolta anche fuori, di punteggiare i propri discorsi con un'esclamazione orrenda.
Egli non annetteva alcun significato sconveniente alla parola, che gli usciva di bocca, per così dire, contro la sua volontà, specie quando lui s'accalorava nel discorso. Era per lui quasi un intercalare inteso a dare forza al suo dire. Perché, quel ch'è peggio, egli non soltanto usava la parola come esclamazione nei momenti di foga, ma spesso la impiegava come rafforzativo generico, del tutto pleonastico, in quanto se ne sarebbe potuto benissimo fare a meno.
Per darvene un'idea: ammettendo che la parola, che mi rifiuto di trascrivere, sia cribbio, egli, oltre ad usarla a proposito e a sproposito come interiezione e, quel ch'è più strano, sia nei momenti di stizza, sia in quelli di buon umore, la usava anche nei momenti di calma, in costruzioni del genere di: quel cribbio del cavalier Tale; o: che cribbio dici? che cribbio fai? e perfino: con tanti cribbi di guai che abbiamo; o: gli dò tanti cribbi di calci nel sedere, eccetera.
Questo avveniva specialmente a tavola, anche se c'erano estranei, e pareva che né essi né il cavalier Odoardo dessero la minima importanza alla cosa. E avveniva anche solitamente in conversazione. In sostanza, avveniva sempre.
Achille Campanile
Per Silvia, fin da bambina, questo era stato un serio motivo d'angoscia. Un tempo ella si considerava addirittura condannata a restar zitella, perché mai avrebbe avuto il coraggio di mettere il fidanzato a parte d'un così atroce segreto. Non era possibile sposarsi, senza che l'uomo prescelto entrasse in casa e avvicinasse il genitore. Sarebbe stata anche una cosa crudele per Silvia, che amava teneramente suo padre; e lo sarebbe stata anche per suo padre, che, a parte questo difetto, non aveva alcun torto verso la famiglia. Ma, se il fidanzato l'avesse avvicinato, era fuor di dubbio che, dopo pochi minuti, avrebbe udito dalle sue labbra l'orrenda parola. E Silvia preferiva piuttosto morire. E si vedeva suora, votata per la vita a un'esistenza claustrale, fuori del mondo, piuttosto che costretta a far sapere all'uomo amato che in casa sua si usava abitualmente una simile parola.
Ora il nodo era venuto al pettine, il paventato momento si profilava all'orizzonte, s'avvicinava come un drago dalle fauci spalancate, che avrebbe ingoiato la felicità della ragazza. Poiché la parola scappava fuori con maggior frequenza nei momenti d'espansività e di buon umore, era più che certo che, superato quel cortese imbarazzo che suole accompagnare il primo incontro col futuro marito della figlia, l'esuberante e cordiale cavalier Odoardo si sarebbe presto sentito a proprio agio e, quel ch'è peggio, a causa della viva simpatia e addirittura dell'affetto ch'egli non avrebbe mancato di provare subito per l'uomo che aspirava a impalmare la cara figliola, si sarebbe sentito d'ottimo umore, e quindi nella disposizione d'animo più favorevole per lo sganciamento, alla prima occasione, d'una ben nutrita sfilza di quelle che abbiamo sostituito con la parola cribbio. E allora a che servivano i collettini di pizzo inamidati, le mani curate, i pallori e i rossori di lei, quando papà con un cribbio avrebbe tutto cancellato?
Silvia, annunziando con molti rossori la prossima visita dell'innamorato e del padre di lui, confidò le proprie apprensioni alla mamma, che le divideva pienamente e che s'incaricò di parlarne al marito; e il primo risultato del colloquio con lui fu un formidabilissimo cribbio uscito di bocca al brav'uomo suo malgrado, alle prime parole della consorte, e che quasi fece svenire Silvia, che origliava tremebonda dietro la porta.
«Papà, ti scongiuro!», disse poi la ragazza, appena si fu rimessa dal colpo, facendo irruzione nella stanza e gettandosi ai piedi del genitore. E tutti fecero coro, mentre Odoardo, confuso e commosso suo malgrado, andava balbettando: «E che cribbio!, manco fossi un imbecille», e frasi del genere, in cui, per quanto egli facesse attenzione e si sforzasse, e forse proprio per questo, l'orrenda parola finiva sempre per venir fuori, sia pure mugolata; al che egli, accorgendosi d'averla detta, la ripeteva con stizza a gran voce, in segno di protesta contro se stesso.
Perfino la vecchia fantesca, di solito ammessa a presenziare con semplice voto consultivo ai consigli di famiglia, imprevedutamente trovò accenti d'un'eloquenza che stupì tutti. È sempre antipatico, disse in sostanza, sapere che la persona amata vive in un ambiente, diciamolo pure, poco fine, o poco castigato, almeno quanto al linguaggio; tuttavia, passi per l'uomo; ma la fidanzata! questa fanciulla che l'innamorato considera un essere quasi angelico, questo giglio, questa creatura di sogno (e tale, in realtà, era Silvia); con che cuore si può farla immaginare dall'innamorato come nata e cresciuta in un'atmosfera irta di quell'odiosa esclamazione? Bisogna anche dire che Silvia, per non esser da meno di Goffredo, unico delicato germoglio d'un padre oltremodo raffinato, gli aveva fin dai primi giorni descritto il proprio genitore come la quintessenza della raffinatezza. Dunque, era assolutamente necessario che Odoardo si controllasse, almeno nei primi incontri. Poi si sarebbe visto. Magari, evitando contatti troppo frequenti.
In pigiama, seduto sulla sponda del letto, Odoardo stava a sentire tutti quei discorsi a capo chino come un colpevole, con le lagrime agli occhi, pentito e addolorato sinceramente, e ogni tanto si grattava con rabbia l'arruffata capigliatura e si mordeva le labbra, perché stava per uscirgli con un sospiro la maledetta parola.
Promise drammaticamente.
Ma nessuno si fidava delle sue assicurazioni e si studiò qualcosa di più efficace. Che egli restasse zitto per tutta la durata della visita, non era né possibile né desiderabile. E non sarebbe stato nemmeno umano. Ettore, il maggiore dei figli, propose di sostituire il termine con altro, magari inventato, che non avesse nessun significato, visto che il significato non entrava per niente nell'esclamazione. Ma, dopo aver provato con lara, tero, tosi e altri neologismi, si capì che essi, oltre a non essere un efficace surrogato per Odoardo (era come dare uno stuzzicadenti a un fumatore accanito, per sostituire le sigarette che ha a portata di mano), avrebbero imposto al poverino un troppo grande sforzo mnemonico e d'attenzione.
Fu deciso allora d'usare un qualsiasi mezzo per ricordargli, nei momenti pericolosi, di non usare l'esecrata parola. Ma nemmeno questo era facile, poiché essa veniva fuori, per così dire, a tradimento, anche senza apparente giustificazione, e quindi era assai difficile, per non dire impossibile, avvertirne l'approssimarsi e correre in tempo ai ripari. Tuttavia, poiché gli usciva di bocca soprattutto quand'egli si infervorava, si pensò a un mezzo meccanico. Qualcuno propose un campanello. C'era per l'appunto in casa un vecchio campanello da tavola e si fece una prova. La quale, però, non dette risultati soddisfacenti, perché Odoardo era talmente avvilito che, per tutta la durata dell'esperimento, non disse che poche parole scialbe, le quali non reclamarono mai l'uso del campanello. E poi tutti furono concordi nel riconoscere che l'impiego di esso, anche se efficace, cosa molto problematica, avrebbe dato alla riunione un carattere d'assemblea parlamentare, odioso quanto enigmatico.
Anche l'impiego di normali mezzi di prevenzione e repressione (tirare Odoardo per la giacca, dargli di gomito o un piccolo calcio sotto la tavola quando si stesse infervorando), a un attento esame si manifestò pieno d'incognite, soprattutto per una ragione; la parola soleva uscire fulminea, quindi il piccolo calcio, la gomitata o che so io, sarebbero arrivati dopo o, nella migliore ipotesi, insieme con l'esclamazione da reprimere, aggravando la situazione.
Occorreva un sistema acciocché Odoardo si ricordasse in ogni momento che non doveva per nessuna ragione usare la parola. Qualcosa come un metronomo che col suo tic-tac ripetesse incessantemente al brav'uomo: "bada, bada, bada", "non la dire, non la dire, non la dire", senza destar l'attenzione di estranei.
Ma anche questo era difficile e inefficace, anzi pericoloso: di fronte a uno strumento del genere, o, che so io, a una lampadina di colore speciale costantemente accesa, o a un ventilatore in moto, o a un turibolo fumante, Odoardo avrebbe finito col non prestarvi attenzione, o più probabilmente con l'esplodere proprio nella paventata esclamazione nei riguardi del petulante congegnino.
Si concluse per l'uso di fazzoletti: a turno, ognuno avrebbe tirato fuori un fazzoletto e l'avrebbe agitato discretamente verso Odoardo, fingendo di volersi soffiare il naso; ma per rammentargli ciò che stava a cuore a tutti, in modo ch'egli fosse costantemente presente a se stesso.
Così s'arrivò al temuto e agognato pomeriggio. Da una settimana la casa era sottoposta a una toletta spettacolosa e quel giorno, fin dalla mattina, non si pensò che all'attesa visita e non si lavorò che per essa. La vecchia fantesca fu quasi mascherata. Si sarebbe detto che dovesse andare a un ipotetico veglione. Malgrado le sue proteste e anche un abbozzo di resistenza, dovette mettersi i guanti di filo bianco e la crestina che le andava continuamente per traverso, contribuendo col palese malumore per aver dovuto sottostare alla sopraffazione ch'era per lei l'insolita toletta, a darle un'espressione stravolta.
Tutti parevano essere stati strigliati a dovere ed erano un po' abbacchiati, le rispettive personalità essendo compresse.
Ma più abbacchiato di tutti, addirittura avvilito, benché tentasse di galvanizzare gli altri con frasi d'incoraggiamento, era proprio Odoardo, che avvertiva nettamente un complesso di colpa. Sicché l'arrivo dei due visitatori avvenne in un'atmosfera di timidezza generale.
La prima a tirar fuori il fazzoletto, più che altro a titolo di preavviso, fu Silvia. Ne aveva presi due e li teneva bene in vista, uno per mano.
«Sei raffreddata?», le domandò Goffredo, timidissimo, a bassa voce, con premura.
Il vecchio padre di lui, professor Giuliano Masti d'Arena, era un tipo di studioso coi capelli grigi e un po' lunghi e le spalle curve. Piccolo di statura, pareva un tapiro e faceva tenerezza. I ragazzi, in anticamera, s'eran divertiti per un pezzo a provarsi il suo cappello di foggia antiquata, sbellicandosi alla vista dei guanti gialli che vi aveva depositato dentro. E soltanto un paio di scapaccioni di Silvia li aveva messi in fuga. Anche quel cappello e quei guanti facevano un po' tenerezza, soprattutto pensando che il proprietario s'era messo in ghingheri per venire a chieder la mano d'una ragazza per il suo unico figlio e che probabilmente non sapeva molto disimpegnarsi, quanto ad abbigliamento per l'occasione, perché era vedovo. Chi sa quanto avevano parlottato, padre e figlio, nella casa deserta, prima d'uscire per la difficile spedizione. I ritratti della mamma guardavano dalle pareti, senza poter intervenire con un consiglio. E forse, se i ritratti sapessero sorridere, più d'una volta avrebbero sorriso, divertiti, oltre che allarmati, all'impaccio dei due.
In salotto, nel primo momento, c'era stato un po' di gelo. Tutti si sentivano a disagio. Il professor Giuliano Masti d'Arena parlava poco. A un "ma che..." di Odoardo, si videro quattro o cinque fazzoletti venir fuori dalle tasche, ma i visitatori non ci fecero caso.
Era un falso allarme. Lo stesso Odoardo rassicurò i familiari, di lontano, con un'occhiata un poco infastidita, e completò la frase con un "ma che diamine", che sulle sue labbra suonò maledettamente stonato dandogli il carattere d'uno di quegli ufficiali di fureria che nelle barzellette d'una volta si stizzivano contro la recluta testona. E dovette essere stato tale lo sforzo per pronunziarlo, che la frase si fermò lì, mentre era partita come esordio.
Nessuno trovava un argomento che appassionasse - ma non troppo, per carità, quanto a Odoardo - tutti. Il professor Masti d'Arena, che già i ragazzi, a bassa voce, chiamavano "il tapiro", accennò con una voce d'oboe al caldo. Odoardo faceva di sì col capo, a labbra strette, compitissimo con sul volto un sorriso, forzato, che somigliava a una smorfia; e ogni tanto, con qualche ammiccamento impercettibile, pareva rispondere: "Niente paura", a certi sguardi imploranti o allarmati che di lontano gli rivolgeva la figlia.
S'era messo l'abito scuro. In verità, non era molto tagliato per queste occasioni, ma si comportava egregiamente, anche se l'emozione per la circostanza e le raccomandazioni avute gravavano sulla sua abituale disinvoltura. Il professor Masti d'Arena passò al tema "figli in genere, anni che passano e vecchiaia".
Preceduti da uno scambio d'occhiate e occhiatacce attraverso la porta e da qualche mossa controtempo della fantesca, arrivarono i gelati e le bevande ghiacce, e questo scaldò un po' l'ambiente.
Oltre a tutte le precauzioni prese, i fratellini piccoli di Silvia si tenevano pronti, come da accordi segreti intervenuti con la mamma e la sorella, a elevare clamori festosi per sopraffare l'eventuale esclamazione, ove questa fosse sfuggita al padre. Ma questi continuava diplomaticamente a lasciar parlare il professor Masti d'Arena e pareva quasi intimidito dall'aspetto pensoso di costui. Ogni pericolo sembrando dissolto, tutti presero a conversare un poco più animatamente, mentre i ragazzi lavoravano a vuotare i vassoi tra risatine e piccoli litigi.
A un certo punto ci fu una di quelle pause generali, consuete nelle conversazioni e che fanno dire poi: è passato un Angelo.
Allora, nel silenzio, s'udì una frase pronunciata energicamente: «e tutto il santo giorno non fanno un amato cribbio».
L'orrenda parola era risuonata a mezz'aria, percepibile da tutti, solo per l'improvviso silenzio.
E a dirla non era stato il padre della ragazza, ma il futuro suocero. Il professor Masti d'Arena. Il "tapiro". Il raffinatissimo, concludendo un discorso rivolto a Odoardo e relativo ai disonesti guadagni di giovani fannulloni d'oggigiorno.
Tutti erano rimasti come pietrificati. Silvia a bocca aperta, la donna di servizio con un piatto in mano e con un piede alzato, la mamma col capo quasi immerso in una torta di crema, i ragazzi con le orbite sgranate, incerti se dovessero innalzare anche in questo caso, non preveduto, i clamori di mascheramento; Odoardo, gli occhi sbarrati nel vuoto, lo sguardo atono, il capo eretto, pareva la statua del "Trionfo dell'innocenza".
Seguì un tonfo, che fece voltar tutti: Goffredo, il fidanzato, era caduto svenuto sul pavimento. Quando si riebbe mediante spruzzi d'acqua sul volto - e tutti attribuirono il leggero deliquio all'emozione dell'innamorato, e al caldo - la conversazione riprese come la musica al Circo dopo un esercizio difficile, e Silvia trasse il giovane sul balcone.
Goffredo taceva, tetro. La ragazza bisbigliò teneramente: «Anche papà...».
«Perché non me l'avevi detto?», mormorò il giovane guardandola negli occhi con amore e riconoscenza infiniti, e anche con una punta d'affettuoso rimprovero, «se sapessi quanto ho sofferto in questi giorni!».
«E io?», sussurrò Silvia, «pensavo che tuo padre, invece..».
«Tubano i colombi», fece, guardandoli di lontano il vecchio pensoso dall'aspetto di tapiro, al quale era del tutto sfuggito il significato del dramma.
Ora, nel salotto, come per l'arrivo di una buona notizia, tutti parevano sollevati. La mamma di Silvia, raggiante, piena d'indulgenza e di disinvoltura, cicalava perdutamente, i ragazzi erano in uno stato d'euforia rumorosa. Odoardo sembrava ringiovanito di dieci anni e conversava gridando, per sopraffare il festoso chiasso circostante, col vecchio pensoso, il quale approvava calorosamente, mentre i due sorbivano gelati e, di quando in quando, pareva s'abbracciassero, nella foga della discussione. E, mentre nella stanza svolazzavano, ormai pacificati, innocenti cribbi, come notturne farfalle dalle ali silenziose, sul balcone Silvia e Goffredo continuavano a bisbigliare parole affettuose e nel cielo chiaro della sera s'accendevano le prime stelle.

da Manuale di conversazione, Rizzoli 1973. 

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