31.10.17

Il lato oscuro (e privato) dei social per scienziati (Nico Pitrelli)

«Nella battaglia per diventare il Facebook degli scienziati ci sono dei lati oscuri che potrebbero modificare significativamente il modo di fare ricerca». Alessandro Delfanti, sociologo dei media all’Università di Toronto in Canada, fa riferimento allo scontro in corso da anni tra diversi social network specializzati sul mondo accademico per accaparrarsi i milioni di studiosi disposti ogni giorno a condividere, scaricare e valutare idee e ricerche dei colleghi. In un saggio di prossima uscita sulla rivista “Cultural Anthropology”, all’interno di una raccolta dal significativo titolo Le infrastrutture del male, Delfanti mette in guardia dai possibili effetti negativi che i social media potrebbero avere sulla scienza. Come afferma in un colloquio con pagina99, «dietro le piattaforme sociali dedicate alla ricerca si nasconde una crisi profonda del mondo universitario, che riguarda sia la crescente precarietà del lavoro accademico, sia il modo in cui i ricercatori producono e scambiano sapere».
I social media per scienziati attualmente più popolari sono Academia.edu, spazio di incontro generalista tra ricercatori che sul suo sito connette oltre 50 milioni di accademici e ResearchGate, specializzato nelle scienze della vita con circa 12 milioni di iscritti da quasi 200 Paesi. Un po’ più indietro, almeno per quanto riguarda i numeri, Mendeley, eccellente strumento per organizzare le bibliografie, usato da circa sei milioni di persone. Queste piattaforme svolgono funzioni simili: permettono di condividere online le pubblicazioni scientifiche, offrono suggerimenti per seguire studiosi di tematiche affini, consentono di monitorare l’impatto delle ricerche. In generale, esse si ispirano ai principi della cosiddetta open science, espressione con cui si indicano le pratiche e il movimento di opinione per rendere la ricerca più accessibile e libera possibile.

Fagocitati da Elzevier
A un primo sguardo, i social dedicati al mondo accademico sembrerebbero andare nella direzione auspicata già qualche anno fa da apologeti della scienza aperta come il fisico americano Michael Nielsen, il quale nel 2012, in un libro-manifesto edito da Einaudi (Le nuove vie della scoperta scientifica), prefigurava grazie a Internet un’ottimistica e radicale transizione nella produzione di conoscenza paragonabile alla rivoluzione scientifica del Seicento. Una lettura più attenta del fenomeno ci dice che le cose non stanno proprio così.
«Prima di tutto», afferma Delfanti, che annovera tra i suoi interessi la critica al capitalismo digitale, «bisogna precisare che i social network dedicati al mondo accademico sono controllati da aziende con fini di lucro».
Mendeley e il Social Sciences Research Network, usato soprattutto dai ricercatori sociali, sono stati ad esempio entrambi acquistati, rispettivamente nel 2013 e nel 2016, da Elsevier, il maggiore editore internazionale in ambito medico e scientifico. Simile è la vicenda di Academia.edu, che nonostante l’utilizzo di un dominio web riservato a scuole e università, è un progetto orientato al profitto, con oltre 17 milioni di dollari raccolti negli anni grazie al supporto di diversi investitori.
In tal modo gli editori privati, neanche troppo indirettamente, intervengono nelle dinamiche del movimento dell’open access, nato però proprio per limitarne il monopolio nella gestione della letteratura scientifica.

Il valore dei dati
Un po’ come per Facebook, dietro la gratuità e il libero accesso presentati dai social media accademici come un’imprescindibile cifra identitaria, si nasconde la vera miniera d’oro su cui si concentrano gli interessi privati: i dati.
«Attraverso il controllo delle piattaforme sociali», continua il sociologo in forze all’Università di Toronto, «le multinazionali dell’editoria accademica hanno accesso a una serie di informazioni estremamente utili non solo per ragioni commerciali, ma anche per definire nuovi sistemi di misura del lavoro degli scienziati». Diversamente dal tradizionale impact factor, Academia.edu e ResearchGate propongono ad esempio indici che fanno riferimento all’ampiezza del network dei ricercatori o al numero di articoli scaricati. Sulla base di questi dati vengono poi stabilite delle classifiche basate su algoritmi non trasparenti. «I servizi offerti dai social media accademici controllati da privati», continua lo studioso italiano, «raccolgono e analizzano una grande quantità di informazioni sulla lettura, le citazioni, le interazioni tra scienziati, per poi assegnare un valore arbitrario a una specifica ricerca. Un aumento dell’utilizzo e della pervasività di queste piattaforme alle condizioni attuali darebbe loro un potere senza precedenti nei processi di selezione e di valutazione della ricerca».

Più social, meno ricerca
A questo aspetto si aggiunge un’altra criticità legata all’esplosione del precariato accademico in tutto il mondo. I social media intensificano infatti soprattutto il lavoro dei sempre più numerosi ricercatori non stabilizzati, che hanno la necessità di rendersi molto visibili se vogliono aspirare a posizioni prestigiose e permanenti. «Da una parte», conclude Delfanti, «assegnisti, borsisti e dottorandi hanno spazi di pubblicazione e possibilità insperate per far circolare le proprie idee. Dall’altra, per emergere sui social, come è noto, occorre impiegare tempo ed energie da aggiungere al già intenso lavoro in laboratorio». Il rischio è di non staccare mai, con il dubbio fondato che a pagarne le conseguenze sia anche la qualità della ricerca.


Pagina 99, 12 maggio 2017

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