30.10.17

Moda. C’è sempre un vestito tra noi e il mondo (Emanuele Coccia)

Emanuele Coccia, maître de conférence all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, ha tenuto il 16 settembre a Carpi – all’interno del festival filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo – una lezione magistrale sulla moda come supplemento del corpo, che venne pubblicata da “Pagina 99” e che qui riprendo. (S.L.L.)
1936.   Amy Johnson, dopo il  volo solitario tra Londra e Città del Capo
indossa un completo in lana ideato e realizzato per lei da Schiappparelli
Non è un’arte come tutte le altre. La moda è la più universale delle arti. È la natura particolare delle sue opere a renderla così diversa. A differenza degli oggetti prodotti dalle belle arti tradizionali, gli abiti non hanno bisogno di rivendicare nessuna autonomia, nessuna separazione, nessuna indipendenza dall’uso. Non solo li usiamo, ma li usiamo tutti i giorni, tutto il giorno, fino alla fine dei nostri giorni. Per questo sono costretti a ritmare il nostro tempo, a incarnarlo e a dargli forma molto più di qualsiasi altro artefatto umano. Le arti hanno sempre preteso di produrre oggetti che si oppongono al tempo e ai suoi capricci, di partorire artefatti più perenni del bronzo. La moda ha preferito assecondare il tempo in tutti i suoi eccessi e le sue ubbie, le sue fantasie storiche e i suoi arbitri climatici, e per questo ne è diventata la più fedele interprete, fino a farsi l’arte del tempo per eccellenza.
L’abito è il tempo che si fa carne e aspetto del nostro corpo: non solo la primavera o l’autunno, ma improvvisamente gli anni ’50 o gli anni ’70 cessano di essere realtà atmosferiche o storiche per farsi attributo e forma della nostra anatomia. Fu Yves Saint Laurent, all’inizio dei Settanta, a distruggere per sempre l’idea che la haute couture e la moda in generale debbano essere il mero strumento di riproduzione dei gusti e dell’egemonia culturale dell’aristocrazia o dell’alta borghesia, assegnandole il compito di farsi lo strumento più raffinato di comprensione e produzione della storia, dello spirito del tempo.
Quanto si prova a costruire e trasmettere attraverso una composizione inedita di scampoli di seta, pelle, lana o cotone non è certo il gusto incerto di uno stilista, né il desiderio di distinzione individuale o di classe: è il volto che ciascuno di noi crede di percepire nella trama spesso incomprensibile degli eventi e delle azioni. Fare (o indossare) un abito significa cercare di rendere intelligibile il nostro tempo, fornire strumenti di orientamento in un mondo di cui nulla e nessuno ormai pretende di conoscere il segreto.
Non è un’arte come tutte le altre. La moda è la più onnipresente delle arti. Non c’è bisogno di varcare la soglia di musei, le gallerie o le piazze pubbliche per farne conoscenza. Il suo luogo è la materia stessa che ci dà vita e di cui siamo forma: il nostro corpo. I vestiti aderiscono alla sua pelle, lo seguono in ogni suo gesto, sostengono ogni suo respiro. Nessun’altra arte può rivendicare questa prossimità all’umanità, nessun’altra potrà mai disporre dello stesso potere di liberare o imprigionare uomini e donne. Prima ancora di manipolare questo giornale o posarvi su questa scrivania, prima ancora di vedere i colori del paesaggio che vi circonda e gustare gli odori che vi penetrano, c’è una porzione di mondo di cui siete appena coscienti che ha rinunciato alla propria forma per seguire la linea delle gambe e del vostro petto, che si aggrappa ai vostri piedi e al vostro bacino, come a voler costringere il mondo a diventare la vostra pelle.
La moda crea il primo mondo di ciascuno di noi, quello in cui ci immergiamo ogni giorno, e lo costringe ad adeguarsi ai nostri bisogni, ai nostri sogni, alle nostre fedi così fragili e arbitrarie. Prima ancora di costruire case, abbiamo imparato a trasformare le cose nella nostra pelle, a fare del mondo il nostro stesso volto. Proprio per questo, come nessun altro oggetto d’arte, gli abiti sono capaci di modificare e trasformare non solo la nostra identità, il nostro modo di vivere e d’essere, ma la realtà stessa della Terra. Quanto uno stilista ha nelle sue mani non è solo uno specchio con cui alimentare il narcisismo delle masse, ma la tecnica che rende possibile l’equilibrio tra umanità e mondo.
Non è un’arte come tutte le altre. La moda è la più sociale delle arti. A differenza delle opere d’arte tradizionali, gli abiti non sono riservati a un’élite di connaisseurs. Tutti ne hanno e ne debbono avere, quale che sia la classe sociale, il ceto, il contesto da cui provengono o la situazione in cui sono immersi.
Miti antichi raccontano che, prima ancora di inventare e fabbricare tessuti, l’uomo abbia ricavato i primissimi vestiti dalla caccia: le vesti erano le spoglie degli animali uccisi, i mantelli dei viventi di cui l’uomo si era nutrito o da cui si era difeso. È per questo, forse, che la moda custodisce da sempre una malcelata crudeltà: indifferentemente dai tagli e dalle misure che impone al corpo umano, v’è qualcosa di demonico nei suoi gesti e nelle sue opere. Ed è probabilmente a causa di questa lontana origine, soprattutto, che tutti gli abiti sono maschere: vestirsi significa da sempre, alla lettera, mettersi nella pelle degli altri, incarnarsi in un altro corpo. Solo la pelle, del resto, può divenire abito: un vestito non è un oggetto appoggiato casualmente su un corpo, ma materia che aderisce talmente al corpo fino a diventarne il respiro più intimo. È questa la lezione dell’opera dello stilista Azzedine Alaïa: la moda non è forma, non è disegno, è il tessuto che diventa pelle, un pelle a pelle con il corpo di uomini e donne.
Ciò che chiamiamo morale, forse, non è che una conseguenza della necessità di indossare abiti: vestirsi deve significare, ogni volta, la pelle altrui nel nostro privatissimo, illeggibile, incomunicabile tatuaggio.

Pagina 99, 15 settembre 2017

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