21.10.17

James Joyce il dublinese (Andrea Binelli)

Non più di dieci anni fa mi sentii ripetere a lungo che James Joyce era scrittore inglese in tutto e per tutto. «Ti invito a cercare» concludeva di solito una carismatica docente del dottorato cui ero iscritto, «le evidenze testuali di questa irlandesità di cui vai parlando». In realtà tutto era già stato argomentato e provato nell’eccellente introduzione a Ulysses pubblicato nel 1992 nella collana Twentieth Century Classics della Penguin. Quanto allora non si sospettava era che un gruppo eterogeneo di studiosi, fra cui Seamus Deane, P.J. Mathews, Emer Nolan, Derek Hand, John McCourt e naturalmente Declan Kiberd, autore appunto di quella introduzione, sarebbero tornati sulla questione con una produzione critica così ricca e puntuale da rendere anacronistico ogni tentativo di epurare Joyce dal suo carattere irlandese e dallo Zeitgeist che lo ispirò negli anni della formazione.
Fondamentale in questo senso è Ulysses and Us dello stesso Kiberd (Fàber and Faber 2009). Nel libro lo studioso, per decenni docente di letteratura inglese allo University College of Dublin e più di recente presso il Keogh Institute of Irish Studies di Notre Dame, non si limita a sondare con rigore filologico il ruolo dei fattori culturali e linguistici squisitamente «irlandesi» nella maturazione del pensiero joyciano e nelle realizzazioni tematiche e formali che lo esprimono. Del resto, questo tipo di esplorazione è un punto di forza di tutti i suoi volumi più apprezzati, da Inventinglreland (Jonathan Cape 1995), passando per Irish Classics (Granfa 2000), fino a The Irish Writer and the World (Cambridge University Press 2005). Si tratta di una indagine storico-letteraria dai risvolti consapevolmente politici, avviata da Kiberd già con la prima monografia (Macmillan 1979) dedicata, non a caso, alle «intersezioni» fra «l’energia latente» della lingua gaelica e lo «stile bilingue» dal «garbo alieno» di un John Millington Synge.
Ma in Ulysses and Us (dove «Us» non è solo l’accusativo di «we», noi, ma soprattutto il calco del termine irlandese «Feinn», attorno al quale si coagulano complesse trame mitologiche e identitarie), c’è molto di più della rivendicazione di centralità per il contesto irlandese nell’opera di Joyce. Di fatto, il noi orgogliosamente esibito nel titolo non ha alcunché di escludente. Kiberd sottolinea a più riprese come il Joyce cosmopolita, internazionalista e dalla biografia europea criticasse aspramente il nazionalismo militante e muscolare della Gaelic League e di W.B. Yeats. È tuttavia indubbio, osserva Kiberd, che dall’Ulisse emerga un monumento alla città di Dublino: alla sua topografia, ai suoi abitanti, alle pratiche sociali e culturali più popolari che fanno di quel luogo un microcosmo vivido e affascinante. Ed è altrettanto evidente che nell’Ulisse figuri il tentativo di «forgiare la coscienza mai creata della mia gente», così come l’autore aveva promesso al termine del Ritratto dell’artista da giovane.
Tutto questo, però, non contraddice affatto l’orizzonte universale, aperto e tollerante al quale l’esule irlandese continuò a rivolgersi per tutta la vita. Allo stesso modo, il noi di Kiberd non ha niente di aggressivo o di chiuso, ed è semmai esemplificato dal tono scanzonato e anarchico del sottotitolo, The Art of Everyday Living. l’arte del vivere quotidiano. La spiegazione è facile. Come ampiamente documentato da Kiberd, Joyce non amò gli accademici e gli intellettuali, trovandosi a suo agio con la gente comune, della quale e per la quale continuò a scrivere. Anzi. Nel conseguente tentativo di sacralizzare il quotidiano e la materialità del vivere, egli decise di raccontare un’unica giornata nelle vite di un ebreo dublinese, sua moglie e un giovane insoddisfatto, proprio perché consapevole che dalle persone più semplici era possibile imparare a fare tutto ciò che ci permette di vivere meglio. Camminare, raccontare, bere, sognare, mangiare, lanciare sguardi languidi e girovagare diventano pertanto i titoli di alcuni dei diciotto capitoli in cui è strutturata la monografia, in un allestimento che riproduce quello progettato da Joyce per il suo Ulisse e descritto nella celebre lettera a Carlo Linati.
All’epica mitologica e guerrafondaia e alla metafisica religiosa, Joyce contrappose l’individuo qualunque e la sua lotta smagata ma non per questo meno ostinata contro le forze sociali che ne ostacolano la realizzazione. È paradossale, osserva Kiberd, che proprio questa epica delle piccole cose e delle persone comuni, ideata da un modernista sui generis dalle simpatie socialiste, non sia patrimonio dell’uomo della strada. Al contrario, l’Ulisse, come gran parte della letteratura moderna, viene ormai letto solo da un gruppuscolo di professionisti isolati i cui lavori sono volutamente refrattari a qualsiasi scambio con la cultura popolare. In questo modo si incenerisce un enorme archivio di conoscenze e un’importante eredità di saggezza. Motivo sufficiente, conclude Kiberd, per rivendicare finalmente la «collettivizzazione» del Joyce bene comune e più in generale della letteratura bene comune.
Sotto auspici per certi versi simili si pone l’edizione economica dell’Ulisse appena uscita in Italia per Newton Compton nella traduzione di Enrico Terrinoni, già allievo e sodale di Kiberd in numerosi lavori di ricerca, coadiuvato da Carlo Bigazzi. Come già notavano Schleiermacher e più tardi Benjamin, è di fatto questa una delle funzioni fondamentali della traduzione: rivitalizzare un’opera letteraria restituendole alla linfa e il respiro che le interpretazioni autorevoli del passato avevano finito per soffocare. A ben vedere, è lo stesso intervento di apertura sovversiva che Kiberd osserva nelle rielaborazioni joyciane dei testi biblici, classici, ma anche dei capolavori di Dante e Shakespeare. È un’operazione che tutela la pluralità dei messaggi artistici e inevitabilmente apre gli steccati in cui opere, autori e interi movimenti troppo spesso vengono rinchiusi. È possibile farlo, sembra suggerirci la traduzione di Terrinoni, rimettendone in discussione le potenzialità semantiche attraverso i setacci dell’adeguamento del registro e della ricognizione degli intrecci intertestuali.
Da segnalare, infine, il vivace contributo alla biografia joyciana di Gordon Bowker, con James Joyce: A Biography (Weidenfeld & Nicolson 2011). È questo un testo monumentale, animato da una certa audacia intellettuale e sonetto da un’ammirevole attività di ricerca. C’è chi ha voluto trovare in Bowker il tentativo di spiegare la finzione di Joyce attraverso le esperienze di vita dello stesso, ma questo non sembra essere stato davvero l’obiettivo dell’autore. Svelare connessioni e plausibili interferenze fra un’attività creativa e un profilo biografico non significa pretendere di attivare un rapporto causale diretto, magari da declinarsi nei termini psicoanalitici delle pulsioni e del ritorno del represso formale (operazione peraltro lecita se svolta nella consapevolezza che l’eventuale risultato può tutt’al più generare ipotesi). Libero da pregiudizi e velleità opportunistiche, lo studio di Bowker si rivela casomai un contributo importante e affidabile.
Un’occasione in più per ricordarci che qualsiasi interpretazione, ancorché autorevole, non si dovrebbe mai cristallizzare in mera liturgia.


“il manifesto”, 9 febbraio 2012

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