Roland Barthes |
Giugno 1981
Barthes è morto da un
anno e quando ebbi la notizia e mi si chiese di parlarne pensai che
bisognasse lasciare le parole a quelli che le hanno già preparate.
Mi aveva mandato i suoi saluti, poco tempo prima; ma non ci si vedeva
da anni. Credo di aver sempre saputo, fin da quando lavoravamo
insieme a «Ragionamenti» e ad «Arguments», che l’intelligenza
sua aveva bisogno, per venire alla luce, di un’ombra costante.
Quell’ombra non è nei suoi saggi più noti, di una milizia
semiologica che gli specialisti hanno contestato, ma in quelli dove
con loro deride se stesso e cerca il piacere, cioè il dolore, del
testo. Quell’ombra, nei suoi ultimi tempi, era venuta avvolgendolo
come nebbia o pallore di vecchie foto dell’infanzia e della madre
di cui parla, nel suo postumo La camera chiara. C’era in
quel Barthes un avvicinamento a Proust, il maestro che non aveva
forse osato affrontare che in poche splendide pagine.
La lezione inaugurale
della cattedra di Semiologia letteraria al Collège de France,
pronunciata il 7 gennaio 1977 ci fa comprendere bene quale fosse
stato il momento iniziale di quella proiezione d’ombra. Non era mai
stato né voluto essere «solare». La chiarezza si batteva sempre,
nelle sua prosa, con qualcosa di imperfetto e fuggente. Nella sua
scrittura c’era, e voleva esserci, la scrittura appunto; quindi una
pluralità e infinità, un «divisionismo». Quelle qui conclusive
sono parole ormai ben note: «Mi accingo dunque a lasciarmi portare
dalla forza di ogni vita vivente: l’oblio. Vi è un’età in cui
si insegna ciò che si sa; questo si chiama cercare. Ora è forse
l’età di un’altra esperienza: quella di disimparare».
Franco Fortini |
C’è in questa Lezione
un passo autobiografico che mi ha turbato. Barthes ha appena detto
che il linguaggio, anzi la lingua, contiene indivisi servilità e
potere, che la letteratura è la sede delle utopie del linguaggio,
che per ostinazioni e spostamenti lotta per la libertà e verità del
desiderio; che la semiologia gli sembra sempre più il «lavoro che
raccoglie l’impuro della lingua, lo scarto della linguistica, la
corruzione immediata del messaggio». E a questo punto aggiunge: «per
quel che mi concerne, la semiologia ha preso le mosse da un movimento
propriamente passionale; mi era parso (intorno al 1954) che una
scienza dei segni potesse attivare la critica sociale e che Sartre,
Brecht e Saussure potessero trovarsi uniti in questo progetto...».
Così Barthes ha indicato
proprio l’anno che precede il suo contatto con «Ragionamenti» e
la prima comparsa in italiano di suoi scritti, che tradussi per
1’«Avanti!». E siccome nelle pagine che seguono si afferma
(passando agli anni successivi al ’68) che il moto liberatorio si
era trasformato in coro di «piccole signorie» e che quindi era
stato necessario tornare al Testo, «che ha in sé la forza di
eludere all’infinito la parola gregaria», bisognerà dire che
qualcosa pur era avvenuto nel frattempo, quasi un quindicennio. Che
cioè la «critica sociale» apparve anche troppo rapidamente a
Barthes proprio «un miscuglio di malafede e di coscienza tranquilla»
(e come tale mi rimproverò una lettera del 1961 dove gli chiedevo
ragione del suo silenzio di fronte ai massacri di nordafricani che in
quei giorni venivano uccisi a decine, forse a centinaia — come oggi
sappiamo — a Parigi: le cosidette ratonnades). Ed egli la
fuggì per altri ambienti e incontri, per altri libri, nel decennio
di De Gaulle.
Così egli può, nella
sua Lezione, rivendicare il diritto, anarchico, a spostarsi,
ossia «trasferirsi dove non si è attesi o ancora più radicalmente
abiurare da ciò che si è scritto...» allorché il potere gregario
lo «strumentalizza e lo asservisce», citando Pasolini, cui l’abiura
avrebbe consentito di scampare dalla «strumentalizzazione del
potere». A me è sempre parso che su questo punto Pasolini si
ingannasse e che forse proprio per questo impiegasse erroneamente il
verbo abiurare in luogo del meno «religioso» disconoscere. La
strumentalizzazione inerisce a qualsiasi discorso pubblico (e, in una
minore misura, anche privato) e l’«abiura» non è che la recita
di una libertà illusoria. Identificare, come Barthes fa (e con lui
Pasolini), servitù della lingua e servitù delle sue forme e sedi di
manifestazione (il film, l’articolo su quel giornale, il discorso
in quella sala ecc.) è la tenacissima illusione di chi crede che
l’uso letterario della lingua sia una sorta di guscio trasparente e
rigido che consente di essere, nello stesso tempo, nel mondo ma non
del mondo; quando semmai questo privilegio è dato, prima della
scrittura, alla vita intellettuale e morale e al suo rischio.
«Noi abbiamo creduto che
il potere fosse un oggetto eminentemente politico; oggi crediamo che
esso sia anche un oggetto ideologico», dice Barthes; e «che sia
discorso di potere ogni discorso che genera la colpa, e di
conseguenza la colpevolezza, di chi lo riceve». Anche qui il
parallelismo con Pasolini è impressionante, col rifiuto
(nietzschiano) di ogni pentimento e l’illusione che un gesto di
privata sovranità ci redima. Questa è la loro (di Barthes e
Pasolini) definitiva irreligione: non voler delegare l’assoluzione
a altri.
E, nelle ultime pagine,
in questo Barthes che accetta di contemplare, con «perversità», le
cose del mondo e la bellezza e di dimenticare per poter avere e dare
sapientia, c'è il medesimo scoramento e la medesima
stanchezza che, nelle pagine di La camera chiara, vira ad un
violetto mortuario. Egli è già in cammino verso la morte della
madre e sua.
Un pomeriggio di pochi
mesi fa, in un autobus che percorreva il quai Malaquais, guardando i
volti dei viaggiatori seduti, che illuminava il bagliore delle nuvole
sospese e, da oltre il fiume, il platino del sole d’inverno
riflesso dalle fiancate del Louvre, come avviene quando il prospetto
della città ci rammenta che si va verso la latitudine di Londra e di
Amsterdam, ebbi il senso che quella medesima scena era certo stata,
con minimi mutamenti, prima della mia nascita, fra l’inizio del
secolo e la Marna e che la letteratura e la pittura quell’ora già
l’avevano interpretata. Tale senso, di essere rapito col proprio
corpo in una dimensione della storia o, per meglio dire, del passato,
è in questa Lezione barthiana. Sono i patres, e le
madri, a chiamare. Come in Proust, appunto. Quando i fantasmi paterni
sono solo nel passato e se nel futuro non scorgiamo fantasmi di figli
o nipoti, possiamo conoscere che cosa questo significa, che cosa
vogliono da noi «quelle voci incantevoli e funebri».
Barthes suonava il
pianoforte. Sapeva cos'è uno «staccato» e quale potente senso di
sospensione e promessa si crei nel silenzio che segue l’ultima
nota. L’esecutore alza le mani dalla tastiera poi si volge e ci
guarda.
In Insistenze,
Garzanti 1985
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