Laura Conti |
Nel suo diario 1946, in occasione del Congresso del Partito socialista, Pietro Nenni fa indica in Raniero Panzieri e Laura Conti i giovani più brillanti venuti al partito socialista con la guerra di Liberazione e la battaglia per la
Repubblica. Credo che
non si sbagliasse sulla qualità intellettuale dei due,
entrambi nati nel 1921.
Mi pare però che il
primo, nonostante la conclusione “minoritaria” della sua vicenda
politica, abbia trovato una valorizzazione e un qualche risarcimento
postumo. Non mi pare che altrettanto sia accaduto a Laura Conti, che
ricordo di aver incontrato ad Ariccia un anno prima della sua morte, già malata ma ancora combattiva, nel 1990, a una riunione tra compagni che si opponevano allo scioglimento
del Pci voluto da Occhetto.
Per caso mangiammo seduti l'uno accanto all'altra nella mensa self-service della scuola sindacale e facemmo, per quel che si può in un paio d'ore, amicizia: ricordo che c'era in lei una doppia sensazione di amarezza, per una proposta politica che le appariva una resa e per la spaccatura all'interno della comunità Pci che quella proposta aveva determinato.
Per caso mangiammo seduti l'uno accanto all'altra nella mensa self-service della scuola sindacale e facemmo, per quel che si può in un paio d'ore, amicizia: ricordo che c'era in lei una doppia sensazione di amarezza, per una proposta politica che le appariva una resa e per la spaccatura all'interno della comunità Pci che quella proposta aveva determinato.
Molto si potrebbe di
Laura, medico e militante, dalla partecipazione alla Resistenza alla
militanza prima nel Psi, poi nel Pci, del suo costante coniugare
rigore scientifico e passione politica.
Fu una “protoambientalista”,
sensibilissima come amministratrice locale alle problematiche
ecologiche, specie se collegate alla salute delle comunità e degli
individui umani, ben prima che acquistassero importanza nella
politica ufficiale. Tra i fondatori di Lega
Ambiente in seguito al dramma di Seveso inquinata dalla diossina, si può dire che fosse da molto tempo “protoambientalista”. Infine fu deputata impegnatissima sui temi della pace, oltre che della salute e dell'ambiente, per due legislature.
Laura fu sempre convinta da sempre che compito
fondamentale di partiti, sindacati, associazioni culturali, ricreative, ambientali di
sinistra fosse l'educazione culturale oltre che civile della gran massa dei lavoratori e dava un peso decisivo alla divulgazione scientifica. Senza trascurare i loro compiti specialistici, scienziati e medici militanti avevano il
dovere di rendere i lavoratori e i cittadini informati e consapevoli.
A questo fine Laura Conti sistematicamente curò rubriche su “Noi donne” e “Il Calendario
del popolo”, spaziando dalla prevenzione dei tumori all'educazione sessuale, e scrisse spesso su “l'Unità” di questioni scientifiche. Ritrovo proprio nel quotidiano del Pci, questo articolo sul doping, nello sport ma non solo, pubblicato nel giugno del 1968.
Nonostante la distanza di 50 anni e le grandi scoperte nel campo delle sostanze dopanti e della conoscenza dei loro effetti distruttivi,
mi pare assai attuale nel metodo, nell'approccio. (S.L.L.)
Con il divieto del doping
s’intende vietare che agli atleti, ventiquattr’ore prima della
competizione e per tutta la sua durata, vengano somministrate
sostanze che tendano ad aumentarne artificiosamente le prestazioni.
Ma che cosa significa «artificiosamente»? Il problema teorico, del
significato della parola «artificio», è molto interessante, e
potrebbe aprire discussioni molto ampie e impegnative. Il problema
pratico nasce dalla pratica osservazione di quali sono in realtà le
sostanze, diverse dai comuni alimenti, di cui molti atleti fanno uso,
e abuso, tanto da mettere in pericolo non solo la propria carriera
sportiva, ma la stessa vita.
Il dottor Raimondo
Flores, medico sportivo, membro della Federazione italiana e fellow
della Federazione internazionale, che ai problemi del doping ha
dedicato molta attenzione, ci spiega che i farmaci impiegati per
aumentare artificiosamente le prestazioni appartengono generalmente a
due classi, le amfetamine e i cosiddetti «anti-MAO»
(anti-mono-amino-ossidasi) : la ricerca nelle urine mette in
evidenza, appunto, l'impiego di sostanze appartenenti a uno di questi
due gruppi, oppure a entrambi.
L’allarme
Il meccanismo d’azione
è, per tutti questi farmaci, un meccanismo di ordine psichico: la
mancata percezione del senso di fatica mette l’atleta in condizione
di proseguire la gara al di là di quel momento in cui la fatica, se
percepita, costituirebbe un ostacolo insormontabile anche per la
forza di volontà più stoicamente allenata, e quindi gli impedirebbe
di proseguire. Ma la fatica non è un fenomeno soggettivo, non è
semplicemente «una sensazione»: la fatica è una condizione
oggettiva dell’organismo, è un particolare stato dei tessuti, una
modificazione chimica a livello dei tessuti e del sangue:
interrompere, mediante medicinali, la sensazione soggettiva della
fatica è come disinserire un segnale d’allarme: l’allarme non
suona, ma la situazione di pericolo persiste, e precipita verso le
sue dannose conseguenze. Una prestazione impegnativa richiede tutta
una serie di fini aggiustamenti reciproci delle funzioni organiche,
nervosa e muscolare, respiratoria e circolatoria e delle ghiandole a
secrezione interna: il «non sentire» la fatica, e quindi domandare
all'organismo di andare al di là di quei livelli di fatica in cui
l'equilibrio di questi aggiustamenti è automaticamente assicurato,
significa sconvolgere questo equilibrio: per esempio, se la
contrazione del muscolo cardiaco viene impegnata al disopra di quello
che è consentito dalla dilatazione delle coronarie, può verificarsi
un infarto cardiaco; se il calore generato nel lavoro muscolare è
superiore alla capacità che l’organismo possiede di regolarne la
dispersione attraverso il sudore, la temperatura interna può salire
fino a produrre lesioni irreversibili dei centri nervosi. La
coscienza non entra per nulla nel gioco finissimo e automatico degli
aggiustamenti, ma quando si prova un senso invincibile di fatica
questo significa che alla vita cosciente, attraverso le sensazioni,
perviene l’avviso che il delicato equilibrio sta per rompersi.
Nessun automobilista penserebbe di risolvere il problema della
mancanza di benzina nel serbatoio spaccando l’indicatore: lo
sportivo che si droga non risolve affatto il problema della fatica,
ma si limita, assurdamente, a spaccare l’indicatore di fatica. Sa
benissimo che dovrà pagare un prezzo, per questa follia: ma spera di
poterlo pagare non in questa gara, ma domani.
Il comportamento è
ancora più pazzesco, fa osservare Flores, in quanto chi prende le
amfetamine non solo sospende il funzionamento dell’indicatore
soggettivo della fatica, ma anticipa l'insorgere della fatica
oggettiva: il suo comportamento è quello di un automobilista che,
preoccupato che possa venirgli a mancare la benzina, spacchi non solo
l’indicatore ma anche il serbatoio. Infatti il buon allenamento
mira a dare allo sportivo una «forma», che in parte consiste
nell’abbassamento della frequenza cardiaca: un corridore bene
allenato, che si metta in gara con un polso a 40, sa di poter
quadruplicare questa frequenza, giungendo a 160; ma se prende
amfetamine prima di correre, immediatamente il suo polso sale a 80 e
però 160 continua a essere il limite superiore, invalicabile:
l'atleta avrà quindi un margine dimezzato, avrà perduto in un
attimo i vantaggi raggiunti con mesi di allenamento.
Anni ’30
I primi a far uso di
amfetamine non per cura medica, ma per superare difficoltà temute
furono gli studenti di tutta Europa, verso la fine degli anni '30. Ad
alcuni le amfetamine davano la capacità di vincere il sonno e
prolungare le ore di studio: non sempre, però, lo studio nello stato
di eccitazione provocato dall’amfetamina dava buoni risultati: un
ottimismo acritico dava l’illusione di avere capito e appreso, ma
si trattava solo di una illusione, che poi l’esame sbugiardava. Ad
altri invece, inibiti dalla timidezza, l'amfetamina forniva nel
momento stesso dell’esame quel tanto di ottimismo che permetteva
loro di esprimersi liberamente. Durante la seconda guerra mondiale i
comandi militari di tutte le nazioni belligeranti studiarono la
possibilità di stimolare artificiosamente, con le amfetamine, i
soldati nell'imminenza di un’azione rischiosa; chi sviluppò
maggiormente questi studi fu il comando germanico, specialmente nella
preparazione al combattimento dei piloti, sia bombardieri che da
caccia. Sembra che in combattimento le amfetamine esplichino una
reale utilità: non solo perché forniscono un ottimismo che permette
di affrontare spavaldamente i pericoli, ma anche perché offrono un
oggettivo margine di maggior sicurezza. Infatti esse potenziano
l’azione di quegli ormoni che entrano in circolazione nei momenti
di tensione psichica e che costituiscono una difesa contro il
pericolo perché danno possibilità di maggiore attenzione, di
maggior velocità nel decidere e, per l’immediato miglioramento
della circolazione del sangue, anche maggior velocità nell'eseguire
le azioni che si sono decise. Se l'automobile sbanda e si rovescia e
l'automobilista ha la «presenza di spirito di tirar giù il
finestrino prima che la vettura cada nel lago, ha agito sotto
l'influenza di una droga, l’adrenalina, che le sue ghiandole
surrenali hanno messo immediatamente in circolazione non appena il
sistema nervoso le ha «avvertite» che la macchina sbandava e che
vicino c’era il lago. Le amfetamine hanno una azione simile a
quella dell'adrenalina, la droga «autarchica» che ci procuriamo da
soli, e aggiungono la propria azione alla sua.
Tutti sanno che la vita
inquieta, angosciata, tesa, fa invecchiare anzitempo: che provoca o
accelera la arteriosclerosi e quindi gli infarti. Questo fenomeno è
in gran parte l'effetto delle molteplici scariche di adrenalina a cui
siamo soggetti: quella scarica di adrenalina che ha permesso
all’automobilista di salvarsi dall’incidente stradale, gli ha
salvato la vita in quel momento, ma ha cancellato dal calendario
della sua esistenza gli ultimi giorni o le ultime settimane. Un
cambio vantaggioso: invece di perdere in un istante quattro decenni
di vita, perderne pochi giorni fra molti anni. Ma la molteplicità
degli incidenti, delle collere, delle frustrazioni, delle tensioni
nervose, alla fin fine accelera l’invecchiamento e affretta la
morte. Così fa il doping, nel migliore dei casi, e corrisponde a un
bruciare in fretta le risorse che abbiamo a disposizione.
Una illusione
Il caso dello sportivo è
diverso perché il doping si unisce alla prestazione muscolare,
cardiaca, circolatoria, respiratoria, e quindi non si limita ad
accelerare il ritmo con cui si spende la vita, ma lo precipita
furiosamente, arrischia addirittura di spenderla tutta in un solo
giorno. E senza ottenere nulla in cambio: non la fluidità di parola
all'esame, come lo studente, non la rapidità nello sterzo come
l'automobilista: in cambio dei vantaggi conseguiti durante
l’allenamento, il ciclista non ottiene altro che una passeggera
euforia nel momento della, partenza. In cambio della cosa, la
parvenza della cosa.
“l'Unità”, 22 giugno
1968
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