Cristina di Svezia
(1626-1689), figlia del superlodato Gustavo Adolfo e di una
bellissima Maria Eleonora del Brandeburgo, regina a sei anni,
autostima alle stelle, rapporti con Dio a suo modo, è personaggio
fin troppo carico di aromi per non attrarre storici e biografi. Lo
comprovano i molti studi di ieri e di oggi che si addensano su questa
figura vulcanica e tendenzialmente leggendaria. Chi voglia
addentrarsi nella vita e nell'opera di Cristina, facendo vibrare di
continuo il pensiero critico, può contare sul saggio di Veronica
Buckley, neozelandese di formazione oxfordiana, residente a Parigi
(Cristina regina di
Svezia, Mondadori, 2006).
Il corredo geopolitico e
dinastico, pur vasto e capillare nell'economia del libro, scorre
veloce grazie al calibrato intarsio di avvenimenti esterni e delle
intime follie della protagonista, grazie all'uso pungente
dell'epistolario, nonché alla vena narrativa messa in campo
dall'autrice. La quale nulla trascura del periodo indagato
(ricordandoci in particolare le sfide scientifiche all'ortodossia
religiosa, la marcia dell'impero ottomano...), compreso il disastro
climatico provocato nel Nord Europa dalla «piccola era glaciale»:
un fenomeno che si ripresentava a distanza di secoli, capace di
gelare fiumi e mari' accentuare malattie e miserie sullo sfondo della
Guerra dei Trent'anni.
A confortare in parte
familiari, cortigiani e sudditi, provvede l'annuncio di una nascita
fervidamente attesa: quella del principe ereditario, un maschio del
ceppo Vasa, che avrebbe onorato il regno di Gustavo Adolfo.
Ahimè, si trattava di un
qui pro quo. Un'illusione notturna spentasi nell'arco di
dodici ore.
Le esperti levatrici,
alle prese con «un esserino urlante e di sesso ambiguo», si
interrogavano sconcertate su chi stesse venendo al mondo: un principe
imperfetto o una principessa mascolina?
Sul far dell'alba,
scrutando e rivalutando con intuibile tensione la natura dell'erede,
avevano sciolto la riserva: il neonato era purtroppo una neonata,
sospetta portatrice di anomalie.
Dunque un ibrido genetico
che avrebbe condizionato la personalità di Cristina, determinando
assai spesso atteggiamenti plateali e assolutisti nel corso
dell'intera esistenza. Esempio: sia in veste luterana sia in veste
cattolica si scagliava ripetutamente contro il matrimonio e la
figliolanza; giudicava la donna il dispetto peggiore della Creazione;
si vantava di allestire intrighi, sotterfugi e sortilegi; di tenere
sulla brace aspiranti di cartello (in cima alla lista il cugino Carlo
Gustavo, sottoposto a un perenne sì, forse, mai...) e di praticare
l'arte della dissimulazione. E lei stessa a confidarci che «già
nella prima gioventù ero in grado di trarre in inganno le persone
più astute».
Facile immaginare gli
scandali e i pettegolezzi che deliziavano e insieme preoccupavano le
corti europee. Cristina stracciava regole e gelose tradizioni,
indossava abiti maschili, adottava volentieri un linguaggio da
taverna, consumava amori saffici accogliendo «democraticamente»
dame, fantesche, boccioli di campagna, novizie e suore illanguidite
nella pace del convento. In pari tempo non disdegnava il sesso
opposto, muovendosi a capriccio tra ambasciatori, cancellieri,
prelati e maggiordomi. Più nota, per intensità e durata, è la
relazione col cardinale Decio Azzolino, anche se i dragatori di
alcove oscillano nel trasmetterci dati oggettivi. C'è chi interpreta
la relazione come un'obbligata, casta amicizia, e chi punta sulla
compiuta bisessualità della partner.
Di certo la regina,
anziché turbarsi per gli insulti sparsi nel reame e oltrefrontiera
(spudorata cacciatrice, buffona, selvaggia, etèra assimilabile a
famose colleghe della classicità...), si guarda allo specchio, si
compiace e sbeffeggia tartufoni e poveri di spirito. Scardinare
l'ordine costituito eccita la sua fantasia.
Fermentano intanto ben
altri disegni a cui dedicarsi: abdicare, abbandonare l'algida Svezia,
trasferirsi nell'adorata Roma, godersi il magnifico palazzo Rierio,
collezionare quadri di autori italiani e, crescendo e sognando,
diventare regina di Napoli con l'aiuto del Mazzarino, sovrana di
Polonia con la complicità di Azzolino. E ancora; fondare teatri e
accademie di grido, radunare intorno a sé scienziati, poeti, pittori
e scultori, musicisti e alchimisti, meritandosi il titolo di Minerva
del Nord.
E qui viene spontaneo
chiedersi: tanta esposizione nella sfera pubblica di mezza Europa era
accompagnata da un congruo tasso di fascino, di leggiadria? Aveva
mutuato qualcosa dalla seducente genitrice?
Testimoni attendibili e
documenti iconografici lo negano, sia pure con indulgenza. Bassa di
statura, naso arcuato, bocca senza denti posteriori, mento aguzzo,
spalle asimmetriche. Una perla tuttavia riusciamo a coglierla: i
grandi occhi azzurri. Regalo generoso di Venere a chi le aveva
preferito la dea della sapienza.
Circondata da ruffiani e
adulatori, consapevole di possedere armi decisive nell'orizzonte
politico europeo (mentre ignorava la crisi economica che soffocava il
suo Paese), vanno attribuiti a Cristina almeno due gravi sensi di
colpa: l'atroce condanna a morte del marchese Monaldeschi - ennesimo
presunto amante - accusato di aver compromesso il sogno napoletano; e
il freddo polare sofferto da Cartesio a Stoccolma dopo il transitorio
invaghimento della regina per il filosofo. Le lezioni impostate dalla
padrona di casa si svolgevano alle cinque del mattino, tre volte la
settimana. Cartesio, indotto a discutere tesi e antitesi a capo
scoperto in una rigida stanza, si ammalò. Dapprima febbre e
costipazione fronteggiate con infuso bollente di tabacco, poi la
polmonite. E, nei giorni successivi, dalla polmonite alla tomba.
In tarda età, l'eroina
del Nord, pur non rigettando esibizionismi e culto egolatrico, si era
concessa un dubbio, un modesto esame di coscienza. Ovvero, «non
sapeva se avesse mai cercato di correggere i propri difetti».
Si sarebbe impegnata a
recuperare? Ci sarebbe riuscita?
Seguendo il tracciato
biografico il lettore è portato a escludere correzioni di rotta, e
avanza la sua impressione complessiva: Cristina di Svezia, non più
che una dilettante illuminata, radicalmente priva di umiltà.
Tuttolibri La Stampa, 12 agosto 2006
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