Michel Montaigne |
Prima o poi può capitare
a chiunque di imbattersi nella moglie di un amico in atteggiamenti
licenziosi con un altro. Eccola lì – il tavolo più in disparte di
un locale fuoriporta – scambiarsi tenerezze con uno sconosciuto! Al
primo impulso di andare a salutare, goderti sadicamente il suo
imbarazzo – le tempie paonazze, il balbettio di patetiche scuse –
ne segue un altro di segno opposto: pagare il conto, filare via
furtivi e riflettere sul da farsi.
A me accadde anni fa. Che
choc vedere la ragazza di uno dei miei più cari amici – la coppia
più affiatata del nostro gruppo – avvinghiata a un tizio in un
cinema d’essai. Mi comportai nel modo che ancora oggi giudico il
più appropriato. Non dissi niente, tenni quel segreto per me (fino
ad ora, almeno). Dopotutto che diritto avevo di intromettermi? Chi mi
assicurava di non essermi sbagliato? E qualora ci avessi visto
giusto, chi mi diceva che la coppia più affiatata del nostro gruppo
non lo fosse proprio in virtù della spregiudicatezza sessuale,
un’indulgenza sapiente e reciproca? Del resto, non ho mai giudicato
gli adulteri con severità. La monogamia è un oltraggio alla natura
così sconsiderato che mai e poi mai mi sarei eletto a censore delle
scappatelle altrui.
Ho fatto bene? Chi può
dirlo! Se i due oggi sono sposati, hanno un paio di figli e
veleggiano verso la maturità con un certo garbo, non lo devono anche
un po’ alla mia discrezione? Non so se la signora nel frattempo ha
rotto con il suo amante o se l’abbia sostituito, non so se il mio
amico è al corrente di questa o altre infedeltà. So che l’amicizia
pone dilemmi morali di questo tipo. Se l’amico in questione mi sta
leggendo e sospetta che è suo il matrimonio di cui vado cianciando
potrebbe giudicare il mio riserbo di allora non meno riprovevole
della franchezza odierna (a mezzo stampa, per di più). Potrebbe
pensare di essere stato tradito due volte: prima dalla malafede della
moglie poi dalla reticenza di uno dei suoi più vecchi amici. La
gente non è indulgente né con gli omertosi né con gli ipocriti. Mi
chiedo: esiste in certi casi una deontologia comportamentale?
Amicizie virili È
difficile spiegare cos’è l’amicizia virile a chi non l’abbia
mai vissuta. Per me che ho radicate difficoltà a confrontarmi con
l’altro sesso, è un diversivo spensierato, un’oasi alle fruste
faccende quotidiane. Le cene, il cazzeggio, la Lazio (allo stadio, in
tv, fa lo stesso), le lunghe sedute a Subbuteo o alla PlayStation, il
bicchiere della staffa, le diatribe sui massimi sistemi filosofici,
le dispute su quel libro che proprio non ti ha convinto e su quello
che non riesci a scrivere, i sogni di gloria, le disfide ideologiche,
le balle, il pettegolezzo, la maldicenza, le figure di merda, le
confessioni più vergognose... Per non dire dei viaggi senza meta, i
gesti di benevolenza reciproca, ma anche le prese in giro spietate
(cojonella, la chiamiamo a Roma). Tutto questo è impagabile,
insostituibile. L’ultimo sorso di adolescenza a disposizione di un
adulto. Ho più di un amico che esulta (senza darlo a vedere) quando
la moglie va in vacanza come nel famoso film con Marilyn Monroe, e
mica perché così potrà darsi alla pazza gioia, ma per dedicare un
po’ di tempo agli amici, tornare ragazzo almeno per il weekend. E
allora via con il turpiloquio, con la selvatichezza, con la libertà.
Adoro l’ultima scena de
L’educazione sentimentale quando Frédéric Moreau e
Deslauriers, rinvangando i bei tempi andati, si commuovono su quella
volta che andarono al bordello insieme. Frédéric esclama: «È la
cosa più bella che ci sia capitata» e Deslauriers non può che
convenirne.
Dio sa se li capisco.
Mica perché sia un frequentatore di bordelli, ma perché immagino
che anche a me tra qualche anno capiterà di rimpiangere il
cameratismo, la complicità, i simposi con i pochi amici di una vita.
In un passo famoso di
Antropologia pragmatica Kant scrive: «La specie di benessere
che sembra meglio accordarsi con l’umanità è un buon pranzo in
buona (e, se è possibile, anche varia) compagnia, della quale
Chesterfield dice che non deve essere al di sotto del numero delle
Grazie, né al di sopra di quello delle Muse». In poche parole, meno
di nove e più di tre. E trovo che Chesterfield esageri per eccesso.
Il numero perfetto a tavola è quattro, come i Cavalieri
dell’Apocalisse.
Solo i misantropi danno
valore all’amicizia? Non deve sorprendere che un orso nichilista
come Flaubert e un abitudinario incline alla solitudine come Kant
tenessero in così alta considerazione amicizie e convivi. Chi se non
colui che ha seri problemi a frequentare il prossimo può apprezzare
i pochi simili con cui sta bene? Nulla è più raro al mondo che una
persona abitualmente sopportabile, pensava Leopardi. E come al solito
aveva ragione. Ecco cos’è un amico: un raro esemplare di persona
abitualmente sopportabile. Pochi ma buoni, questo è il motto.
Perché era lui; perché
ero io Il che spiega perché lo scrittore che meglio ha saputo
descrivere l’insostituibilità dell’amicizia, i suoi incanti,
l’empatia, è anche colui passato alla storia per la scelta di
chiudersi nella sua torre d’avorio, trascurando ogni altra
faccenda, a meditare e a scrivere per il resto dei suoi giorni: parlo
di Michel Montaigne naturalmente. Il suo amico del cuore si chiamava
Étienne de La Boétie e per via della morte prematura di
quest’ultimo la loro amicizia durò poco più di un lustro.
Montaigne passò i decenni che gli rimanevano da vivere a
rimpiangerlo, parlandone sempre con toni più consoni all’amore
forse, che all’amicizia, tanto da autorizzare in qualcuno il
sospetto di omosessualità. Mai un legame fu più franco, profondo,
elettivo. Nel saggio Dell’amicizia, Montaigne scrive
infatti: «Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che
questo non si può esprimere che rispondendo: Perché era lui;
perché ero io». Conoscete una definizione più efficace e più
struggente dell’amore e dell’amicizia? Perché amiamo qualcuno?
Perché gli siamo così devoti? Semplice: perché noi siamo noi e
loro sono loro. Cos’altro c’è da dire o da spiegare?
In un saggio più tardo,
Montaigne, tornando sull’argomento, chiarisce ancora meglio il suo
punto di vista. Parlando delle poche cose per cui la vita è degna di
essere vissuta (donne, amicizie, libri), confessa di essere un buon
conversatore ma di aborrire le amicizie frivole. Le vere grandi
amicizie si contano sulle dita di una mano. Sta ancora pensando a La
Boétie naturalmente. È per colpa di quell’amico morto da molti
anni, quel compagno che lo ha in qualche modo viziato, che Montaigne
ha perso interesse per tutti gli altri. Le amicizie, quelle vere e
profonde, si basano solo sull’elezione e sull’affinità. Come si
vede: solo gli isolati credono davvero nell’amicizia.
Chi aveva ragione
tra Montaigne e La Rochefoucauld
Al contrario sono i
mondani, gli estroversi, chi conta migliaia di amici su Facebook, chi
non si perde un cocktail o una prima al cinema, a non tenere in gran
conto l’amicizia, un po’ come i libertini per cui una donna vale
l’altra.
E mi viene subito in
mente un altro dei Gran Signori delle lettere francesi. Vissuto quasi
un secolo dopo Montaigne, il duca di La Rochefoucauld frequentava
assiduamente il salotto di Madame de Sablé, circolo parigino tra i
più rinomati ed esclusivi nei formidabili anni della Reggenza.
Intrecciò amicizie profonde – straordinariamente proficue per la
letteratura occidentale – con Madame de La Fayette e Madame de
Sévigné. Che trio incredibile! Il duca era bello, ricco, audace, un
conversatore strepitoso, divertente e disincantato a un tempo. Oltre
alle stupende Memorie gli dobbiamo le famose Massime.
Dato il contesto, non ci sorprende che in una di esse scriva: «Per
raro che sia il vero amore, è meno raro della vera amicizia». Assai
più sorpresa ci suscita questa, altrettanto famosa: «Nelle
avversità dei nostri migliori amici noi scopriamo sempre qualcosa
che non ci dispiace». La Rochefoucauld mette il dito sulla piaga
purulenta dell’amicizia, svela l’oscuro doppiofondo di qualsiasi
sodalizio.
Per intenderci, provate a
immaginare una telefonata con il vostro più caro amico. Ecco che,
dopo il solito cazzeggio, vi annuncia: «Senti, ho una cosa da
confessarti». «Tipo?». «Una cosa grossa». «Dai, non tenermi
sulle spine». «Hai presente il vincitore della lotteria di
Capodanno, quello che non si fa trovare? Il possessore del biglietto
da dieci milioni di euro». «Be’, è il tuo benzinaio? La tua
colf?». «No, sono io». «Dai, non scherzare». «Parlo
seriamente».
Ditemi se non è
un’ottima ragione per mettere alla prova la tenuta di una lunga
consolidata amicizia. Dovremmo essere contenti per lui, il nostro
amico è diventato milionario. Eppure in quel momento lo vorremmo
morto. Facciamo di tutto per dissimulare questi impulsi biechi ma è
più forte di noi. Siamo sconvolti. Non a caso Oscar Wilde, a suo
modo un moralista classico non meno geniale di La Rochefoucauld,
diceva: «Ognuno può compatire le sofferenze di un amico, ma è
necessaria una natura davvero gentile per simpatizzare con i successi
di un amico». Nessuna amicizia è mai davvero limpida. Ecco perché
non c’è niente di meglio che parlare male di un amico. Ci piace
ammirarlo, ma talvolta ci piace anche disprezzarlo. In fondo è
invecchiato peggio di me, ci cogliamo ogni tanto a pensare. E ne
proviamo conforto. Ma se muore, o se in qualche altro modo viene
meno, lascia una voragine profonda, non un dolore che toglie il
fiato, ma una specie di malinconia soffusa e immedicabile.
Insomma, credere o non
credere nell’amicizia? Credere o non credere nella sua purezza e
onestà? Chi aveva ragione, Montaigne o La Rochefoucauld? A chi dare
retta, al solitario o al mondano?
La Lettura – Corriere
della sera, 28 gennaio 2018
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