Il testo che segue, di
Salvatore Settis, prestigioso archeologo e storico dell'Arte in prima
linea nella difesa del patrimonio artistico e culturale italiano, è
la prefazione al libro di Antonio Tabucchi Gli Zingari e il
Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze
pubblicato per la prima volta nel 1999 e ristampato qualche
mese fa (2019) dalle Edizioni Piagge di Firenze. Parla solo
marginalmente dello scritto di Tabucchi e piuttosto si sofferma sulla
sua figura intellettuale, che gli appare tuttora un esempio da
seguire. (S.L.L.)
Nessuno dubiterà che il
tema dell’impegno degli intellettuali nella vita civile del nostro
Paese fu tra quelli più cari ad Antonio Tabucchi, come è
documentato nei numerosi articoli che pubblicò, mentre intanto
s’impegnava lui stesso, anche con estrema decisione e durezza, in
battaglie civili su temi difficili e controversi.
Della forza d’impatto
di Antonio è esempio significativo il breve scritto che qui si
ripubblica, Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze
(1999), dove egli condanna senza appello la suprema volgarità di
certa industria culturale fiorentina, che facendo leva sul
Rinascimento ne frantuma e commercializza gli ideali, ignorando
intanto il messaggio centrale di ogni umanesimo, l’integrale
rispetto per l’uomo. I Rom ai confini della città, i meccanismi di
rigetto, lo strisciante disprezzo, l’abitudine a chiudere gli occhi
rimuovendo dall’orizzonte i poveri e i diseredati: abitudini e
pratiche che suscitavano in Antonio uno sdegno senza confini. Questa
sua “mossa”, da grande intellettuale, di obbligarci a pensare al
Rinascimento guardando un campo Rom, e viceversa, ricorda il gesto
altrettanto radicale di un grande storico della cultura, Aby Warburg,
che sul finire del secolo XIX provò a intendere il Rinascimento
fiorentino attraverso la danza del serpente e le ceramiche decorate
dagli Indiani Hopi dell’Arizona. Una tale radicalità lascia solo
due alternative: voltare vilmente le spalle, o fermarsi a pensare.
Può permettersi di essere così radicale chi non abbia solo
ricchezza culturale, ma (qualità molto più importante) libertà
interiore. Come Tabucchi.
Ricordo di aver parlato
con lui, in particolare, dell’eclisse dell’intellettuale
impegnato in Italia. Gli “intellettuali impegnati” abbondarono a
lungo da noi, quando poteva darsi per scontato che i problemi della
società dovessero trovare nei partiti (soprattutto di sinistra) una
camera di decantazione, una “macchina per l’interpretazione” in
cui tutto venisse analizzato dagli intellettuali di mestiere. In quei
decenni non c’era lista elettorale che non si cercasse di
arricchire di un qualche nome più o meno in vista, intellettuali
«prestati alla politica», si diceva, che spesso accettavano
l’elezione come «indipendenti di sinistra», e scalpitavano a ogni
richiamo alla disciplina di partito. Da anni non è più così. Oggi,
con poche eccezioni, gli intellettuali si impegnano qualche volta su
temi etici (per esempio l’eutanasia), molto meno sul terreno della
politica, diventato insidiosissimo. I partiti non li cercano, in
Parlamento non ce n’è quasi più, e nessuno lo trova strano.
Perché una mutazione tanto profonda, in soli vent’anni?
Per citare solo una delle
ragioni di questa trasformazione, vorrei qui evocare il tramonto
della cultura del bene comune, un tema che ha in Italia una storia
lunghissima. Partendo dal bonum commune di tanti statuti delle
città medievali e dalla publica utilitas spesso richiamata
dai giuristi, dai filosofi e dai teologi, si puntò per secoli a
tramandare di generazione in generazione un sistema di valori civili,
un costume diffuso che valesse più di ogni costrizione mediante le
norme, insegnando a riconoscere la priorità del bene comune,
subordinando ad esso ogni interesse del singolo, quando col bene
comune sia in contrasto.
Ma l’idea di bene
comune, con la sua dimensione al tempo stesso etica e politica,
comporta un forte senso di responsabilità intergenerazionale.
Comporta la piena consapevolezza che bisogna lavorare oggi per le
generazioni future. È qui che l’“intellettuale impegnato”
dovrebbe far sentire la propria voce, mostrando, come Antonio
Tabucchi ha saputo fare senza sconti per nessuno, la necessità e i
vantaggi di uno sguardo lungimirante. Il suo impegno ci dà l’esempio
di una singolare eloquenza, quella dell’intellettuale che adopera
come un’arma la lingua letteraria e la conoscenza storica. Antonio
non è mai caduto, come tanti intellettuali, nella tentazione di
reagire alle difficoltà del presente chiudendosi in un dignitoso
silenzio. Non ha taciuto, credo di poter dire, perché temeva che
anche il silenzio può rivelare complicità inconfessabili. Non ha
mai cercato di entrare in nessuna “stanza dei bottoni”, perché
gli fu estranea ogni ambizione di potere: gli bastava il potere della
scrittura, la forza della libertà di parola, la dignità del
cittadino.
Se mai c’è un futuro
in Italia per la figura ormai antica dell’intellettuale impegnato,
è sulla linea indicata nei fatti da Antonio che dobbiamo cercarlo.
Perché la generale eclissi dell’intellettuale impegnato, anzi la
sua lenta estinzione, può esser forse capovolta in vantaggio. Questa
eclissi toglie status, ma anche arroganza, a un gruppo sociale che in
Italia fu anche troppo avvezzo a guardare gli altri dall’alto in
basso: ciò che Antonio non ha fatto mai. La sfortuna degli
intellettuali nell’Italia di oggi ha questo di positivo, che li
restituisce a quello che sono (o siamo): cittadini fra i cittadini.
Questa è dunque la
domanda, a cui nelle pagine di Antonio possiamo cercare una risposta
forte e vibrante: è possibile l’impegno civile di un cittadino che
(anziché ad altri lavori) si dedichi alla ricerca o alla
letteratura? O diremo che ogni intellettuale deve limitarsi alla
propria specializzazione, lasciando i temi di attualità ai politici
di mestiere?
La risposta a questa
domanda che la vita di Antonio, e non solo la sua scrittura, ci
suggerisce, è molto semplice: bisogna rivendicare, ed esercitare
pienamente, il diritto di parola non dell’intellettuale, bensì del
cittadino; o meglio, dell’intellettuale in quanto cittadino. Perché
«politica» è o dovrebbe essere, per la stessa genealogia della
parola, il libero discorso fra cittadini, che abbia per tema gli
interessi e il futuro della comunità, della polis.
Nel degrado dei valori e
dei comportamenti che appesta il tempo presente, è sempre più
urgente che i cittadini si impegnino in una riflessione alta, non
macchiata da personali interessi e meditata, sui grandi temi civili
del nostro tempo, e li affrontino armati di conoscenze professionali,
ma anche animati da un forte senso del bene comune, cuore della
nostra Costituzione.
Di fronte alla crisi
della politica, oggi anche troppo evidente, è dunque ai cittadini
che deve tornare la parola d’iniziativa. Questa è (credo) la
grande e precoce lezione di Antonio Tabucchi nei suoi scritti e nelle
sue battaglie civili: un intellettuale che non si è mai proposto
come un cittadino “speciale”, più savio e più autorevole degli
altri. Che, al contrario, ha saputo vigorosamente parlare da
cittadino ai cittadini, utilizzando con umiltà e con rigore il suo
acume nel giudicare il mondo, le sue straordinarie abilità nel
raccontarlo.
Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2019
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