Nell’estate del 1992 a Monte Giove, non lontano da Fano, in un convento dei padri Camaldolesi, si svolse un incontro sulla morte, diviso in due sessioni: Morte: paura e dolore e Morte, immortalità, resurrezione. Vi furono invitati, tra gli altri, due colonne del “manifesto”, Rossana Rossanda, laica e credente in altro che nelle religioni, e Filippo Gentiloni, incline alla disobbedienza ma cattolico. I testi che presentarono servirono, qualche anno dopo, a formare un libro.
Il contributo di Rossanda è un racconto fantastico dal titolo Amar, preceduto nel volume da una premessa esplicativa, che contiene anch’essa lacerti narrativi. Di tale natura è il brano qui “postato”, a mio parere esemplare nel delineare un carattere e una situazione. (S.L.L.)
Era una ragazza bellissima e d’una arrogante intelligenza che molto prima aveva attraversato una lunga trasgressione, ne era uscita chiedendo aiuto e le era stato dato, si era rimessa in cammino con un bagaglio di domande, severità, insofferenze e dubbi che i coetanei non avevano. A sei anni di distanza, quando quel ch’era avvenuto s’era archiviato in lei per quel che era, una bufera adolescenziale, si trovò inchiodata da un esame ematologico. Io non l’avevo conosciuta nel momento del passaggio tra l’oscura vitalità della droga a quel momento. La conobbi quando la malattia si era dichiarata.
Lei non la accettò mai. Anche quando riuscimmo a parlarne furono grandi i silenzi e grande l’ostinazione: lei se la sarebbe cavata. Lei non poteva essere abbattuta da quella clamorosa sciocchezza d’una stagione perduta alla memoria, scivolata via da sé. Non cessò mai di rivoltarsi, finché ebbe coscienza, malgrado avesse paura, malgrado si consumasse da un mese all’altro come una candela, assalita da debolezze e sonni o febbrilità appena tentava di costruirsi una giornata, un lavoro, una vacanza. Sapeva ma puntava sulla volontà di stare a galla, e ripiombava a fondo. Una mattina d’aprile mentre leggeva un occhio le si coprì di nebbia e lo perdette in pochi giorni, eppure una fotografia registra ancora il suo fiero profilo contro l’orizzonte. D’estate venne la tubercolosi, lei la vinse. Poi un primo insulto cerebrale, ma la coscienza era vigile e infelicissima, senza pace, tormentata da quello sfuggire delle forze e dall’orrore della morte addosso.
Io avevo quasi mezzo secolo più di lei, ed ero in colpa di averlo. Già nulla di quel che per lei potevo fare somigliava a quel che domandava, e nessuna delle due lo scordava. Tutto quello che le potevo dire non era vero, perché né a lei né a me serviva. Una volta la sfidai a vivere quel passaggio senza dibattersi per non regalare alla morte più di quanto si perdesse. Facemmo un tardivo progetto, ma era così stanca, le forze erano così andate che non aprii mai il registratore che avevo portato con me. Aiutatemi, disse una volta selvaggiamente. E poi, senza collera: “Non puoi capire”. Le dissi che sì, che anch’io ero nei tempi supplementari della partita. Ma tu l’hai giocata, a lei era stata negata da una malasorte sproporzionata all’errore commesso. Il tempo che resta è sempre poco. Questa volta fu lei a non capire. Come poteva?
Da Filippo Gentiloni, Rossana Rossanda, La vita breve, Pratiche Editrice, Parma, 1996
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