2.7.10

I ricordi di Umberto Terracini. Torino operaia e socialista.

Umberto Terracini (1895-1983) fu amico e sodale di Gramsci, Tasca e Togliatti nell’Ordine Nuovo, fu tra i fondatori del Pcd’i a Livorno nel 1921 ed ebbe incarichi di responsabilità nell’Internazionale Comunista. Nelle carceri fasciste si trovò in sintonia con Gramsci nel giudizio sulla cosiddetta “svolta” nella linea dell’Internazionale Comunista, maturata nel gruppo dirigente staliniano intorno al 1930. I capi dell’Ic vedevano nella Grande Crisi scatenata nel 29 dal crollo di Wall Street una accelerazione della crisi del capitalismo. In questo contesto, secondo Stalin e i suoi, bisognava impegnare i partiti comunisti nell’iniziativa rivoluzionaria, escludendo ogni politica delle alleanze con altre forze antifasciste. In particolare si equiparavano le socialdemocrazie ai fascismi come strumenti estremi della borghesia per fermare la spinta dirompente delle masse: era la cosiddetta, infausta, tesi del “socialfascismo”. Per Terracini quel dissenso fu origine di una serie di “fraterne e malvagie persecuzioni”, che culminarono nella proposta di espulsione da parte del collettivo carcerario del partito, maturata dopo la sua opposizione al Patto Molotov-Von Ribbentrop.
Riammesso nel Partito da Togliatti dopo la Liberazione, fu presidente della Costituente e, in questa veste, firmatario della Costituzione. Senatore della Repubblica fino alla morte, fu amatissimo dalla base comunista per l'antica amicizia con Gramsci e per l'oratoria tagliente, ma rimase in sostanza estraneo alle dinamiche dei gruppi dirigenti che si confrontavano nel Pci. Il brano qui proposto è tratto dall'intervista autobiografica ad Arturo Gismondi pubblicata nel 1978 da Laterza con il titolo Intervista sul comunismo difficile, a cui rimando anche per l'approfondimento degli aspetti teorici e politici del "caso Terracini". (S.L.L.).

Operai Fiat  nei primi anni del Novecento

Mi sono ritrovato a vivere fin dai primi anni in un grande centro operaio nel quale era già molto avanzato quel processo di aggregazione associativa fra i lavoratori che fu il primo risultato della predicazione socialista. Vi erano, a Torino, due strutture portanti dell’organizzazione operaia: l’Associazione generale degli operai, una istituzione mutualistico-assistenziale dotata di un attrezzato ambulatorio e di alcune farmacie, e l’Alleanza cooperativa, che agli spacci di vendita distribuiti in tutta la città aveva affiancato alcune aziende di lavorazione e confezionamento di certi generi alimentari, come il mulino e la cantina sociale.
Le due istituzioni si erano costruite proprio nel cuore della città e del suo quartiere più signorile: un grande palazzo nel quale erano ospitate, oltre agli uffici, tutte le altre organizzazioni proletarie, dalle leghe di mestiere ai sindacati di categoria, dalla sezione socialista alla biblioteca popolare, alla redazione del settimanale, alla birreria sociale. La gente lo designava genericamente come la Camera del lavoro, e l’edificio ogni sera brulicava per le riunioni più varie alle quali affluivano, specie dalle borgate della cinta cittadina, i lavoratori con i loro familiari. Era un luogo d’incontro e anche un po’ di svago, dove ci si scambiavano le notizie, si ricevevano indicazioni e direttive, si sentiva il polso della situazione. al secondo piano c’era un salone decorato da grandi affreschi di Luigi Onetti che simboleggiavano le lotte e la sorte della classe operaia, e dove si tenevano le assemblee maggiori – della sezione socialista, dei metalmeccanici – e fra Natale e Capodanno alcune feste tradizionali. Gli abitanti del quartiere evitavano di percorrere le strade perimetrali del palazzo, e la sera ne sbirciavano con timore le finestre illuminate dai becchi a gas.
[…]
L’ambiente mio familiare era, se non conservatore, appena appena moderato; e ricordo ancora come sollevasse scandalo uno zio che non nascondeva le sue simpatie giolittiane. Degli operai si parlava spesso in casa di mia nonna, ove si riuniva la famiglia, ma sempre con un senso di timore, specie se c’erano stati degli scioperi o delle manifestazioni pubbliche, il che non era raro. E la mia curiosità ne era stimolata. Ma solo più tardi incominciai a leggere De Amicis, e poi qualche numero dell’“Avanti!”, che trovavo in casa di un cugino scavezzacollo il quale copriva la sua insofferenza di ogni indisciplina con una mozione di solidarietà con gli sfruttati e gli oppressi di tutto il mondo; e finalmente venne la guerra di Libia con l’esplosione del più bolso militarismo da una parte e, dall’altra, con una ripresa infiammata dell’antimilitarismo, che era stato sempre bandiera prima dell’agitazione socialista.
Le scuole furono trasformate in centrali di propaganda bellica. Nella mia il professore di matematica, avendo avuto un fratello caduto ad Amba Alagi, si dava aria di eroe e passava di classe in classe ad arringarci in termini guerrieri, mentre gli operai uscivano dalle fabbriche e percorrevano in corteo le strade e si raccoglievano in comizio davanti al palazzo dell’Associazione generale. E io fui investito da quello scontro di sentimenti e di idee che si estendeva per l’intera città. Adesso me lo comperavo io, l’ “Avanti!”; e dinanzi ai disegni atroci di Scalarini – i cadaveri dei soldati italiani riversi sulle dune di sabbia, le donne a lutto, le schiere di arabi in barracano pendenti dalle forche di piazza del pane a Tripoli – mi sentii definitivamente unito a quelli che, agitando le bandiere rosse, gridavano imprecando contro la guerra.
Durante una zuffa nella scuola mi trovai a parteggiare con un tipo magrolino, con occhi irosi, che avevo già visto in occasione di certe cerimonie dell’istituto. Era Tasca, primo della classe, figlio di un manovale delle ferrovie e giovane socialista. Sarà un incontro decisivo per il mio avvenire.

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