5.12.14

A piccole dosi. Il punto sull'omeopatia (Paolo Bellavite)

Nell'agosto del 2001 “il manifesto” sotto il titolo Il teatro della salute dedicò una serie di articoli alle medicine non convenzionali o esotiche. L'articolo che segue, dedicato alla omeopatia, mi pare una ricognizione utilissima, senza demonizzazioni e senza infatuazioni, su un tema, che anche oggi, a più di dieci anni di distanza resta di grande interesse. L'autore, Paolo Bellavite, medico, ematologo, era al tempo professore di patologia generale a Verona. E' autore di numerose pubblicazioni in campo immunoematologico e sui meccanismi dell'infiammazione. (S.L.L.)
Da una parte stregoneria, residuo di epoche passate, ciarlataneria; dall'altra medicina del XXI secolo, frontiera della scienza medica, scienza emergente. Sono tutti appellativi attribuiti all'omeopatia, una delle discipline più controverse tra quelle del variegato mondo delle medicine cosiddette non-convenzionali. L'esistenza, la persistenza e la rinascita almeno a livello popolare dell'omeopatia - i cui utenti sono raddoppiati negli ultimi sei anni, secondo indagini dell'Istat promosse dall'Istituto Superiore di Sanità - pone una sfida appassionante al sapere medico-scientifico. Non si tratta solo di un dilemma tra efficacia/non efficacia di un metodo terapeutico o di un medicinale ma di una questione che tocca il «cuore» della medicina moderna. Le dosi «omeopatiche» sono una violazione del paradigma meccanicistico-molecolare oggi dominante o, meglio, contestano la sua pretesa di essere l'unica credibile interpretazione della realtà biologica. L'omeopatia troverebbe migliore collocazione nell'ambito di un paradigma emergente in medicina, che si potrebbe definire biofisico: le molecole non sarebbero gli unici fattori determinanti in fisiologia e in patologia, in quanto avrebbero un grosso ruolo anche energie e informazioni di tipo bio-elettro-magnetico. Secondo altri sarebbe più opportuno inquadrare l'omeopatia nel paradigma della complessità per valorizzare l'interrelazione dinamica tra le varie componenti dell'essere umano, psichiche e fisico-anatomiche, e la relazione con l'ambiente. Queste due interpretazioni non sono in contrasto, ma illustrano la novità e l'attualità dell'approccio omeopatico.
L'omeopatia (da omoios-simile e pathos-sofferenza) rappresenta uno dei grandi «sistemi» medici di fine 700-primi '800, fondato dal medico tedesco Samuel Hahnemann. Le prime pubblicazioni risalgono al Saggio su un nuovo principio per accertare il potere curativo dei formaci, del 1796, poi all'opera ancora di riferimento, l'Organon (1810). Secondo tale sistema, sarebbe possibile curare i malati mediante la somministrazione in minime dosi (e/o alte diluizioni/dinamizzazioni) di medicinali scelti utilizzando il principio della «similitudine dei sintomi» (similia similibus curantur). In altre parole, quel medicinale (vegetale, minerale o persino veleno animale) che, provato in piccole dosi su un soggetto sano, induce la comparsa di caratteristici sintomi per l'innesco di un disequilibrio fisiopatologico, potrebbe curare un soggetto che presentasse, a causa di una malattia naturale, gli stessi o simili sintomi. Pur trattandosi di un principio presente in tradizioni antiche come la scuola Ippocratica (400 a.C) e di Paracelso (1.500 d.C.) Hahnemann ne fece un metodo operativo, diffusosi in tutto il mondo e ancora largamente utilizzato.
I rimedi omeopatici non sono prescritti per specifiche «malattie», ma per i sintomi individuali e caratteristici della persona malata durante la malattia. Il problema dell'«emicrania» non esiste; esiste il paziente con emicrania. L'omeopatia accentua l'individualizzazione poiché il suo proving del farmaco sull'individuo sano non provoca la malattia organica ma fornisce una serie di sintomi individuali prevalentemente di natura funzionale; è, dunque, necessaria una concezione individualizzante per usare i sintomi come guida in caso di malattia naturale. Inoltre, la stessa malattia in individui diversi richiede spesso medicinali diversi.
C'è chi sostiene che sia proprio questa concezione della malattia che pone l'individuo al centro il motivo principale del successo popolare dell'omeopatia: l'applicazione del metodo richiede l'espressione da parte del paziente e l'ascolto da parte del medico della totalità soggettiva e oggettiva dell'esperienza di dolore e disordine psicosomatico o persino esistenziale (Omeopatia, la via interiore alla guarigione, M. Castellini, Mondadori, 2000). Ma la farmacologia convenzionale che muove obiezioni all'omeopatia dimentica che questa nasce come medicina sperimentale, non come una dottrina filosofica: nella storia della medicina occidentale, Hahnemann è stato il primo a portare avanti la prova degli effetti «puri» dei farmaci (puri in quanto sperimentati sul soggetto sano, non alterati da stati di malattia). Un metodo che - col contribuito dei numerosi seguaci dagli Usa all'India, all'Italia dove fu introdotta nel 1822 da Necker - ha permesso di accumulare un patrimonio di conoscenze farmacologiche unico, raccolto nelle «Materie Mediche» omeopatiche.
Le fortune dell'omeopatia sono state alterne: un grande sviluppo di popolarità e pubblicazioni per la maggior parte del XIX secolo, nonostante l'opposizione della medicina convenzionale, e un declino progressivo nel corso del XX secolo, fino a ridursi a un'ombra nel II dopoguerra. Declino spiegabile, in parte, con l'efficace lotta all'omeopatia dell'American Medicai Association che portò alla chiusura dei Colleges e alla messa al bando degli omeopati. Ma, soprattutto, alla «vittoria sul campo» della medicina scientifica, alla scoperta di farmaci chimici sempre più efficaci per le malattie infettive dominanti al tempo, nella terapia sostitutiva, nell'analgesia, antisepsi e anestesia. Medici e industrie ripudiarono così le vecchie, difficili e misteriose teorie hahnemanniane. L'avvento del nuovo paradima della biologia molecolare nel II dopoguerra e con esso dell'idea che la patologia fosse dovuta all'alterazione di un meccanismo molecolare e che la terapia farmacologica fosse la modifica o la sostituzione di una molecola, ha portato alla consacrazione definitiva dell'attitudine riduzionistica della medicina convenzionale. Ogni altro approccio è parso superato e fuorviante. L'omeopatia è comunque sopravvissuta in piccoli cenacoli di appassionati che hanno continuato a «credere» nella sua efficacia aderendo alla sua norma deontologica fondamentale: il medico deve trattare il malato con la terapia più adatta al caso.
Anche da parte omeopatica non sono mancati attacchi alla medicina ufficiale. Già Hahnemann enunciava la sua attitudine fenomenologica e il suo scetticismo nei confronti della cosiddetta «medicina teorica» e delle sue «ipotesi sulla natura essenziale delle malattie»; affermava che l'unico scopo del medico è curare i malati, in aperta polemica con i colleghi «allopatici». Questi, secondo Hahnemann, mentre dissertavano sulla natura delle malattie senza giungere a conoscenze certe, somministravano irrazionalmente sostanze tossiche in alte dosi, purghe e salassi che, dopo un momentaneo miglioramento, si rivelavano ancor più dannosi del morbo.
La «vis polemica» di Hahnemann e seguaci non ebbe un ruolo secondario nell'accendere la reazione di allopati e farmacisti. Anche le lotte interne al mondo omeopatico hanno avuto un peso rilevante nella sue fortune altalenanti, così come l'incapacità di sviluppare una teoria scientifica o quanto meno una «medicina basata sulle evidenze». Nonostante lo scetticismo della medicina accademica, oltre il 70% dei cittadini che negli ultimi tre anni si sono curati con l'omeopatia riferiscono di averne tratto benefici (Istat). Anche un recente studio osservazionale, coordinato da Muscari Tomaioli della scuola di omeopatia di Verona, riferisce il miglioramento della sintomatologia dolorosa nel 73.7% di pazienti cefalalgici. L'inattesa rinascita dell'omeopatia negli ultimi 15-20 anni è dunque dovuta più a una spinta dalla base che alle convinzioni di classe medica e istituzioni; infatti, non esistono cattedre di medicine non convenzionali e soprattutto di omeopatia nel mondo occidentale. Tale rinascita testimonia un cambiamento culturale che qualcuno chiama anche cambiamento di paradigma e che implica sia una critica alla medicina ritenuta troppo spersonalizzata, sia la fine del ruolo «paternalistico» del medico, sia una maggiore responsabilizzazione dei cittadini nelle scelte sulla propria salute. Anche il mondo medico-scientifico si interroga su tale cambiamento, muovendo dalla presa di coscienza dei limiti dell'approccio meccanicistico-molecolare e della conseguente super-specializzazione. Il paradigma della biologia molecolare lungi dal «risolvere» la complessità in fisiologia e patologia, l'ha documentata mostrando la molteplicità dei fattori, individuali e ambientali, sottostanti a molte patologie. Basta pensare alle «ricadute» pratiche e terapeutiche del progetto genoma, finora inferiori alle attese.
Così l'aumentata consapevolezza della complessità in medicina non può che suscitare la rivalutazione dei tanti approcci medici rivolti più al complesso che al semplice, più al «sottile» che al macroscopico, più al «fattore umano» che all'aspetto tecnologico. L'omeopatia si prefigge di intervenire stimolando il potere endogeno di guarigione dell'organismo ed è per questo che può essere compresa solo all'interno di un paradigma che fa riferimento alla scienza della complessità. Credo sia stata proprio questa la molla che ha acceso in me e nel mio gruppo di lavoro, che da dieci anni opera presso l'università di Verona, l'interesse per una ricerca scientifica nel campo dell'omeopatia. Muovendo dall'intuizione della ricchezza profonda contenuta in questa tradizione empirica - l'aver posto, cioè, sempre al centro dell'analisi del caso clinico la totalità dei sintomi e l'individualità del paziente - abbiamo preso l'avvio, assistiti dal metodo sperimentale e dalle nuove tecniche di ricerca clinica e di laboratorio. Ci ha animato la convinzione che gli omeopati e gli scienziati interessati a questi fenomeni possano riportare l'approccio terapeutico basato sul principio di similitudine nel solco della medicina scientifica, forse meglio definibile come medicina razionale. Il termine «ragione» richiama una prospettiva aperta alla realtà umana secondo la totalità dei suoi fattori, sia quelli quantitativamente rilevabili, di competenza scientifica, sia quelli di tipo qualitativo, umanistico o artistico che dir si voglia. Che la pratica medica, interessandosi della sofferenza della persona nella sua interezza, sia non solo scienza ma anche arte è un concetto oggi accettato universalmente (Il Ministero della salute, di G. Cesana, Studio Editoriale Fiorentino, 2000). Per favorire un confronto che tenga conto del positivo presente nelle tradizioni mediche empiriche, senza perdere di vista gli errori e le deviazioni troppo divergenti della razionalità, è stato anche avviato, per iniziativa dell'università e dell'ordine dei medici di Verona, un «Osservatorio per le Medicine Complementari» che ha curato la pubblicazione del testo: Le medicine complementari (Utet, 2000).
Un chiarimento di alcuni dei problemi teorici correlati all'omeopatia viene oggi offerto anche da indagini sperimentali di laboratorio e su animali. Anche il nostro gruppo, in collaborazione con quello di Anita Conforti presso la sezione di farmacologia, sta sviluppando alcune ricerche in questo campo, in particolare sugli effetti inversi e non-lineari nell'attivazione delle cellule del sangue e di immunomodulazione sperimentale. Sono studi sulla linea del «principio di similitudine» omeopatico - oggi rivalutato in campo scientifico -, che può essere razionalizzato e dimostrato a prescindere dal problema delle alte diluizioni: il rimedio omeopatico attiva i sistemi di controllo dell'omeostasi dell'organismo in sostituzione di un segnale regolatore endogeno che potrebbe non essere sufficiente o efficace, perché il sistema non è più sensibile ad esso in quanto bloccato dalla malattia. Specifici contributi in questa direzione sono quelli dei gruppi di Madeleine Bastide a Montpellier, Roeland Van Widk a Utrecht, Lucietta Betti a Bologna
Un altro caposaldo dell'omeopatìa riguarda l'uso delle piccole dosi o delle alte diluizioni/dinamizzazioni, cosiddette alte «potenze» perché, secondo la teoria omeopatica, il processo di diluizione seguito da forte scuotimento della soluzione diluita, aumenterebbe l'effetto del medicinale. La diluizione all'inizio fu imposta dal fatto che si usava fare le prove anche con sostanze molto velenose (aconito, arsenico, cianuro) e dal fatto che la solubilizzazione di molte sostanze richiedeva estesa triturazione e diluizione. Quando si parla di dosi omeopatiche, non necessariamente ci si riferisce alle dosi «infinitesimali», cioè quelle la cui diluizione ha superato la costante molecolare di Avogadro, oltre la quale non è più possibile rilevare la presenza di sostanze in una soluzione. La maggior parte dei medicinali oggi venduti come «omeopatici» in Europa contengono dosaggi farmacologici anche se bassissimi di principi attivi. Quindi sostenere che l'omeopatia sia tout-court «acqua fresca» è un'affermazione non aderente alla realtà. Se di acqua fresca (anzi soluzione idroalcoolica) si deve parlare, ciò vale per le diluizioni/dinamizzazioni omeopatiche oltre la dodicesima centesimale o ventiquattresima decimale. È chiaro che qui si esce dai canoni della farmacologia classica e quindi vi è meno spazio per le certezze e più per ipotesi che aspettano una dimostrazione oggettiva.
In questione: a) le proprietà fisiche dell'acqua e delle soluzioni idroalcooliche sono per molti aspetti ancora sconosciute, soprattutto per ciò che riguarda le interazioni «long-range» tra molecole, b) non è assurdo pensare che nell'acqua possano essere immagazzinate informazioni sotto forma di frequenze vibrazionali dei dipoli molecolari («superradianza») o di gusci di idratazione vuoti («clatrati» o clusters); e) vi sono prove che il trattamento di acqua pura con onde elettromagnetiche le conferisce nuove proprietà fisico-chimiche che, conservandosi, sarebbero trasferibili a sistemi biologici; d) vi sono prove che molti tipi di recettori cellulari ed enzimi sono attivati o inibiti in vari sistemi sperimentali dall'applicazione di campi elettromagnetici di bassa frequenza, quali quelli che potrebbero essere «impressi» nelle soluzioni omeopatiche; e) le teorie della complessità e del caos postulano che una minima modifica delle condizioni di un sistema che si trova lontano dall'equilibrio (quali sono spesso i sistemi viventi) può sortire grandi effetti che si stabilizzano attorno a degli «attrattori» e ciò ha grandi implicazioni per la comprensione degli effetti di minime energie. Nei campi della fisica dell'acqua correlati con le teorie omeopatiche si sono distinti Emilie Del Giudice e Giuliano Preparata dell'istituto di fisica nucleare di Milano e il gruppo di Vittorio Elia a Napoli.
Al di là di qualsiasi ipotesi, rimane il problema, ineludibile, delle prove di efficacia. La ricerca clinica sull'azione di rimedi omeopatici, condotta con metodi tendenzialmente simili a quelli utilizzati nella medicina convenzionale, si è molto sviluppata negli ultimi 10-15 anni, anche se copre ancora solo una piccola parte dei problemi posti da questo metodo terapeutico. Sul piano storico ed epistemologico è in corso un importante dibattito su un punto-chiave: quali sono i criteri di evidenza necessari per valutare una medicina? I dati ottenuti secondo i più rigorosi metodi di trials clinici sarebbero fondamentali e auspicabili, ma non possono da soli costituire una prova di validità. Se si accettasse il principio di un'evidenza scientifica incontrovertibile prima di accettare come praticabile una medicina, si rischierebbe una «paralisi terapeutica», in quanto la maggior parte delle conoscenze e delle procedure, anche della medicina convenzionale, non è stata provata a livello di trials clinici e di quei criteri ancor più rigorosi fissati dalle meta-analisi. L'esperienza clinica dei medici e il «gradimento» della popolazione in un certo periodo storico costituiscono altri criteri per affermare che una medicina ha o no delle «evidenze», quanto meno riguardo alla sua efficienza. 
Concludiamo citando Hufeland, autorevole allopata contemporaneo di Hahnemann, tra i pochi che perseguirono un'integrazione tra diversi metodi terapeutici: «Scrivo perché ho ritenuto scorretto e indegno della scienza trattare la nuova dottrina dell'omeopatia con la ridicolizzazione o la persecuzione. La soppressione e il dispotismo nella scienza mi ripugnano; [...] Prova tutto e trattieni ciò che è buono: questo è e rimane il primo comandamento della scienza. La Medicina è scienza dell'esperienza, è pratica, è continuo esperimento e l'esperimento non è mai concluso. Libertà di pensiero, libertà di scienza, questo è il nostro più alto baluardo e così deve rimanere se vogliamo progredire.» (in Il Simile in Medicina di LJ. Boyd, Ed. Libreria Cortina di Verona. 2001).

"il manifesto", 22 agosto 2001

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