4.10.17

“Sono un uomo libero, il mio padrone è Dio”. Francesco d'Assisi (Domenico Del Rio)

Riprendo qui la prima parte di un articolo di Domenico Del Rio per il dossier che “la Repubblica” dedicò nel 1981 al centenario francescano: Frate Francesco: otto secoli portati bene, dedicata al rapporto del Poverello con il potere politico ed ecclestiasico. Vi leggo più di uno spunto di attualità. (S.L.L.)

C'era uno sfarzoso corteo imperiale sulla strada di Assisi. Ottone IV, «con grande pompa e clamore», andava a Roma a farsi incoronare imperatore da papa Innocenzo III, con un interminabile seguito di cortigiani, vassalli e cavalieri. La gente di Assisi si era riversata nella piana, abbandonando case, fondachi e campi per ammirare il magnifico spettacolo.
A Rivotorto, poco lontano dalla strada, in una capanna abitava Francesco d’Assisi con i suoi primi frati. Quando passò l’imperatore, da quella capanna non si mosse nessuno. Francesco, dice Tommaso Da Celano, il suo maggior biografo, «non volle nemmeno uscire a vederlo né permise che vi andasse alcuno dei suoi compagni».
È un episodio emblematico del distacco, dell’indifferenza, della noncuranza, che Francesco d’Assisi, sensibilissimo e attento a ogni condizione umana, aveva verso chi incarnava l’autorità, verso gli uomini del potere. «Sdegnava di adulare re e principi», dice ancora il suo biografo.
Era una libertà da «gran signore» che il «Poverello» si prendeva di fronte a ciò che sembrava avere grande valore per il mondo.
Nell’ottavo centenario della nascita di Francesco d’Assisi (1182) è inevitabile che, tra festeggiamenti, celebrazioni ufficiali e abbondanza di agiografie, la figura del santo sia voltata e rivoltata da tutte le parti. Ne verranno fuori certamente cognizioni storiche utili, interpretazioni parziali e globali, motivi di generale ammirazione e devozione.
A noi, in questa rapida commemorazione giornalistica, piace prenderlo da un punto di vista probabilmente non ancora molto approfondito: quello dell’uomo sovranamente libero, padrone di tutto e possessore di nulla. E sotto questo profilo forse non è da buttar via nemmeno il Francesco romantico, il Francesco delle tortorelle e delle allodole, della predica agli uccelli. Egli si sente uguale a loro: creature libere nel cielo.
Di questa libertà Francesco prende consapevolezza nel momento cruciale della sua vita, quando abbandona la famiglia e si rifiuta di presentarsi in giudizio, davanti ai consoli della città, che lo hanno convocato su denuncia del padre: «Per grazia di Dio sono diventato uomo libero e servo dell’Altissimo. Non sono più obbligato a obbedire ai consoli».
Il giovane (era sui 25 anni, aveva già fatto una guerra e disastrose esperienze cavalleresche e militari) era all’inizio della sua «conversione» e la frase, con quella precisa indicazione di «uomo libero», riecheggiava concetti del diritto feudale germanico, che si era ampiamente diffuso in Italia con longobardi e franchi. «Uomo libero» era l’equivalente di nobile, che godeva di diritti di esenzione di fronte all’autorità. Francesco, appropriandosi di quel titolo, senza investitura di nessun signore, per autodeliberazione, si proclamava libero da qualsiasi vassallaggio terreno.
Su questa strada convoglierà poi anche i Terziari, cioè uomini e donne che, pur non facendosi religiosi, aderivano al movimento francescano tramite il Terz’Ordine. Ad essi proibì il giuramento di vassallaggio e l’uso delle armi. Non fu una semplice regola morale, provocò invece una massa di obiettori di coscienza, che diede luogo al rifiuto di obbedienza perfino di città intere, come avvenne a Faenza nel 1221. Il Terz’Ordine era appena stato fondato che i cittadini di Faenza vi entrarono in massa per non dover rispondere agli appelli alle armi del loro signore. Costui, che era ghibellino, volle costringerli in virtù di un giuramento. Essi si rivolsero al vescovo, il quale si rivolse al papa. Il pontefice rispose che i Terziari di Faenza erano sciolti dal loro giuramento di vassallaggio e quindi era diritto e dovere del vescovo difenderli contro il loro signore.
Questa forza, dati i tempi in cui vigeva il principio «Dio ha voluto che ogni dignità secolare fosse soggetta all’autorità ecclesiastica», veniva naturalmente dall’appoggiarsi alla Chiesa.
Ma anche nei confronti dell’autorità ecclesiastica, sebbene con maggiore formale cautela, Francesco non rinunciò mai a fare ciò che voleva, a sviluppare il disegno che aveva in mente. «Rimase irremovibile in quello che egli chiedeva al papa» per la sua istituzione religiosa, afferma un antico biografo «La sua grande originalità», dice Paul Sabatier, il maggiore degli studiosi di francescanesimo, «è di non aver mai ceduto».
Non solo. Sebbene nella regola avesse raccomandato di non criticare nessuno, c’è una testimonianza storica che ce lo fa vedere mentre predica di fronte al papa e ai cardinali: «parlò dell’orgoglio e del cattivo esempio dei prelati che coprivano di confusione tutta la Chiesa». Del resto egli stesso disse: «Io voglio, prima di tutto, con la santa umiltà e reverenza, convertire i prelati». Una volta, trovandosi quasi per sbaglio a vivere qualche giorno in casa di un cardinale, a Roma, scappò via dicendo: «Penso sia meglio fuggire da queste corti dei grandi».

E, forse anche simbolicamente, oltre che un poco argutamente, portava sempre con sé una scopa, «per spazzare le chiese dalle immondizie: perocché grande dolore aveva il beato Francesco vedendo una chiesa non così monda come la voleva».

"la Repubblica", 26 settembre 1981

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