15.7.18

La triglia, trent'anni fa. Note storiche e consigli gastronomici di Maurizio Maggiani


Il dotto medico Calina nelle sue «annotazioni» al "Trattato della natura de cibi e del bere" dell'altrettanto esimio Pisanelli se ne sbotta a un certo punto con tanta dottrina «la triglia non la mangia chi la piglia». Tale mirabile sintesi di saggezza ha due encomiabili ragioni. Primo, la triglia è stata per più di un millennio di dieta mediterranea uno tra i pesci più pregiati, ragion per cui il sempre umile pescatore ne ha con sicuro rammarico privato se stesso per le fauci del nobile compratore. Secondo chi ha sostenuto lo sguardo della triglia morente, chi ha assistito alla coreografia della sua morte non potrebbe mai e poi mai commettere l'infamia di cibarsene.
Riproponiamo a nutrimento spirituale dei lettori la tragica scena. Una coppia di giovani triglie nuoticchia tra gli scogli. Sfiorandosi si incrociano leggeri i baffi bargigli e gli sguardi languidi inebriati amorevoli (sguardo di triglia si dice a ragione) cinguettano i due (triglia da trizein, emettere un lieve suono) boccheggiando eccitati al vedere un verme a mezz'acqua. Lui perché l'ama si mette da parte e la lascia abboccare. Un trillo acuto all'aggancio dell'amo, poi uno scoloramento dal rosso vivace marezzato dorato al grigio opaco e maculato della morte mentre lui disperato si avventa con la pinna dorsale spinata a recidere il filo. Impotente sibilerà fino allo stremo il suo dolore. Alla faccia dunque di chi presume «muto come un pesce e fesso come l'occhio di un pesce».
I romani che oltre ad essere i nostri dubbi progenitori erano di gusti tanto raffinati quanto criminali erano soliti gustarsi lo spettacolo a mensa facendo introdurre al banchetto le triglie vive a coppie in bocce di un vetro che esaltasse come in una sorta di technicolor le mutazioni cromatiche dell'agonia Consumata la tragedia se le mangiavano in molti gustosi modi anche al solito un po' perversi.
Innanzitutto loro le triglie o rossioh o pesci capra per via del colore dei baffi se le facevano venire dal Mediterraneo meridionale ed in particolare dal mare di Siria perché questo pesce raggiunge la sua magnificenza di gusto e di taglia (anche un chilogrammo e più) nei man caldi temperati e in quelli tropicali. Preferivano quelle di scoglio che pagate in argento potevano costare cifre favolose, se è stato tradotto bene il De re coquinaria di Apicio, anche il controvalore di uno schiavo per una cesta.
Apicio stesso propone ai suoi aristocratici lettori di consumarle preparate in «patina», adagiate sventrate in un tegame sopra uno strato di cipolla e cotte a forno lento con un poco d'olio e di garum e infine cosparse di aceto e santoreggia arabescate con striscioline di aringa affumicata. A proposito di schifezze il garum migliore si faceva proprio con la triglia. Garum o liquamen (già la parola dice tutto) era una salsa preziosissima e puzzolentissima composta dal prodotto liquido della fermentazione controllata con sale e spezie vane del ventriglio del pesce. Usata per condire le carni e i pesci sono passati mille anni prima che risultasse disgustosa e per liquamen si incominciasse a intendere propriamente il contenuto della fogna. Sarà una coincidenza ma a vantarsi di aver dopo secoli riscoperto la ricetta del garum è stato quel Rabelais folle autore dell'onnivoro Gargantua.
Ma la triglia è gentile e delicata la sua carne saporosa e fine e dal secondo millennio in poi si è cominciato a mangiarla come Dio comanda e dunque soprattutto arrosto e accomodata in salse profumate e soft. Maestro Martino da Como, gran servidor di vescovi e prenci del XIV secolo, è il primo a intuire nella sua De arte coquinaria che a differenza di ogni altro pesce della sua taglia la triglia non va volgarmente sbuzzata ma semplicemente e delicatamente lavata con molta acqua salata.
Ma l'aristocratica triglia risplende nella «cucina galante» di Vincenzo Corado napoletano di corte settecentesca il quale propone diversissimi modi di cottura assai delicati. E in particolare con la carta, presumiamo carta di una volta, assai resistente e pura, nella quale possono essere avvolte accompagnate dalle “erbette origano aglio e pevere e olio e quindi bollite o messe in forno”. Nell'oggi la triglia non pare appetire più di tanto. Probabilmente per ragioni di estetica dell'occhio le si preferiscono specie piu appariscenti e di carni più chiare e meno sapide. Perfino il ragionevole e pratico Artusi ne parla bene; usando i verbi al passato fornisce poi le ricette che sono quelle di uso comune e moderno: prevalentemente jn gratella condite di limone, aglio, prezzemolo con burro o olio o accomodate nei pomodoro, modo che si dice alla livornese come per tutto il pesce cotto in tal modo.
La baffuta e squittente triglietta occhidolci se ne sta ora per lo più nei piatti di quelli che l'han presa e dei loro amici. Giustizia è fatta e un ripensamertto dei ricchi non sarebbe forse d'uopo.

Di scoglio o di fondo purché sia piccolina
La triglia che si pesca dalle nostre parti è - si sa - di scoglio o di fango. Nell'uno e nell'altro caso non raggiunge mai pezzature elevate anche se certi racconti di pesca favoleggiano giganti in particolare nei litorali di Corsica. In ogni caso per mangiarsele e non per vantarsene più piccole sono meglio è. Quella di scoglio ha colorito rosso vivo che smuore con il trapasso, l'altra tende a una colorazione più confacente al suo habitat ed è perciò tendente al grigiastro. Quale delle due sia la migliore è questione secolare controversa anche perchè c'è e scoglio e scoglio, fango e fango. La migliore in Italia dovrebbe essere quella di scoglio perché così si è detto da sempre e perché a me piace più quella. Ma proprio dalle mie parti altotirreniche liguri molti pescatori pensano il contrario. Ci sono due ragioni: la meno nobile è che quella di scoglio èpiù rara e di difficile pesca, l'altra sicuramente vera è che può capitare che la triglia di scoglio «sappia» ovvero puzzi.
La cosa dipende dalla pastura di cui si nutre il pesce dal suo metabolismo e quindi dal periodo della pesca che per la triglia rossa e assai delicato e raggiunge l'ideale solo nei mesi di settembre e ottobre: chi la compra in primavera sa che dovrà apprezzarne il caretteristico bouquet al fenolo. Per la grigetta di fango è invece propizio tutto il periodo che va da maggio a ottobre. Ovviamente più le triglie sono minute più la carne sarà delicata. Rimani però costante nella triglia (freschissima mio Dio!) il profumo di salmastro appena avvertito anche dopo cottura, una consistenza della carne piacevolmente compatta (è una goduria con le mani staccarla a rocchetti dalla lisca e sfogliarne la pelle mai appiccicosa o sbrindellata), un gusto saporito e certo che rimane piacevolmente al palato.
Come per tante altre cose il modo migliore e più gustoso di appropriarsene è quello fuori legge o di difficile esecuzione. Io ad esempio trovo che il massimo della cena di triglie sia il seguente. Ci si rechi in località marittima. Si attenda sulla spiagga l'arrivo serale delle barche piscatorie (la triglia si pesca di giorno meglio che di notte e questa è già una grande comodità). Si acquisti un chiletto di piccole triglie di scoglio. Si accenda un discreto fuoco seduta stante sulla rena e sopra si ponga una gran padella ricca di olio d oliva e mentre quello si scalda con un temperino si procuri di eliminare il grosso squame da ciascun pesce, che poi si laverà nell'acqua di mare ben bene. Se ci sono signorine si potrà anche eliminare attraverso una microscopica incisione all'altezza delle branche il più dell'intestino che di suo è squisitissimo. Si frigga, si mangi e si beva.
Già la triglia profuma naturalmente di mare: preparata in questo modo la sua peculiarità viene esaltata aristocraticamente senza tacere che il cuoco acquisterà con questa coreografia un prestigio che potrà più tardi far valere nei dovuti modi. Il modo galeotto è invece il seguente. Fatevi amici fidati di pescatori in modo che vi possano fornire tra luglio e agosto di novellame ovvero di neonate triglie di fango non più grandi mezzo dito di cui è rigorosamente proibita la pesca. Così come vi sono state date infarinatele appena e friggetele un attimo in olio bollentissimo. Mangiatele prendendole per il codino che, unico scarto, conserverete per il gatto di casa. Dopo rifletteteci su e chiedetevi se avete mai assaggiato creature marine più deliziose. Forse sì, i gamberetti di fiume crudi insaporiti di erbette aromatiche, ma allora siete stati proprio fortunati.

Dal supplemento “l'arcigoloso”, l'Unità, Giovedì 7 luglio 1988

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