Terry Eagleton |
Considerato oggi il critico letterario più importante e incisivo del panorama britannico, di origine irlandese, marxista eterodosso, Terry Ealgeton di certo rappresenta, in un tempo forse non più suo, l'estrema propaggine di un percorso culturale in tutto e per tutto anglosassone, contrassegnato da un umanesimo radicale, da un socialismo fortemente intellettualizzato e da un serrato confronto interdisciplinare, che permette di tracciare linee sinergiche di notevole interesse.
È forse in virtù di quest'ultima peculiarità del suo pensiero critico - che egli del resto condivide col suo maestro, poi ripudiato, Raymond Williams - che difficilmente potremmo rubricare l'attività di Eagleton a una generica area del sapere umanistico. Non si tratta di un teorico della letteratura tout court, né di uno specialista (per quanto si sia imposto come studioso di Shakespeare e abbia dedicato libri al romanzo inglese, a Samuel Richardson o alle sorelle Brontë, saggi su Conrad, Orwell, Eliot, Auden e molti altri), né tantomeno di un critico della cultura (nel senso «francofortese») o di un intellettuale engagé: Eagleton resta un umanista inglese dalle esibite concezioni socialiste (quanto romantiche), un accademico che non disdegna l'impegno politico materialista, seppure non concepisca quest'ultimo - entrando spesso in evidente contraddizione - in contrasto con una tendenza all'interrogazione religiosa o etico-morale (particolarmente presente nelle ultime sue prove, in cui si nota un inconsueto ricorrere di suggestioni psicoanalistiche, provenienti dalle lettura postmoderniste di Lacan).
Ma il critico letterario di Salford è soprattutto un eccellente scrittore di critica letteraria. E per quanto egli ritenga un limite l'estetizzazione letteraria della saggistica, tanto da accusare il suo collega (e rivale) marxista Fredric Jameson di compromettente uso artistico della riflessione filosofica, si può senza dubbio estendere questo giudizio all'esperienza teorica e critica del medesimo Eagleton, la cui abilità scrittoria - unita a un incontenibile gusto per la boutade e per il sarcasmo, persino ricercato e concepito come necessità ermeneutica - si lascia facilmente riconoscere, specie nelle recensioni o negli articoli di occasione (per non parlare della sua attività di autore per il teatro o di poeta).
Insomma, Eagleton incarna una particolare tipologia di umanista e di critico letterario che sembra ormai fuori dal tempo. La sua poliedricità, assieme a un gusto per l'eccentrico e l'umoristico, pericolosamente si lascia spesso assorbire dal felice nichilismo della nostra contemporaneità. E tuttavia, la sua saggistica d'intervento, sempre tesa, dietro la maschera della diatriba e della protesta, a una difesa del sapere letterario, resta l'esempio forse più importante dell'eredità di critici o intellettuali pure politicamente distanti come Raymond Williams, Caudwell, Arnold, Thompson, Addison, o della presenza nel Regno Unito di un pensiero culturale «europeo» di matrice antagonista, cui fanno capo costanti riferimenti a intellettuali come Benjamin, Brecht, Adorno e Lukács.
Per queste ragioni suscita sempre attenzione la sua comparsa sul mercato editoriale (di cui, nel settore limitato della saggistica culturale, è quasi una star): e non poteva mancare, puntuale, in tempo di crisi e recessione economica, un suo contributo alla lettura di Marx. Why Marx Was Right è il titolo di un volume ricco e generoso, edito quest'anno da Yale University Press, in cui Eagleton prova a contrastare, con la solita sagacia, otto fra le accuse generalmente mosse al marxismo, per dimostrare di quest'ultimo, al contrario, la vitalità e la forza ermeneutica. L'obiettivo di fondo è quello di un'introduzione pratica al pensiero di Marx; il risultato evidente è un tentativo, spesso limitato e ancor più spesso goffo, di semplificare questioni di capitale importanza, con il proposito di attualizzarle o di renderle comprensibili a un largo pubblico. In tal senso, il manualetto introduttivo edito da Sansoni qualche anno fa, e intitolato Marx, rappresentava un esperimento più riuscito. Il nuovo libro, invece, si riassume in una serie di affermazioni pressoché estemporanee. Le obiezioni tradizionali a cui Eagleton intende rispondere sono troppo genericamente sintetizzate, così pure le possibili risposte risultano vaghe e rischiano di perdersi in chiacchiericcio. Così, ad esempio, per opporsi all'idea che il marxismo sia ossessionato dalla nozione di «classe», Eagleton si limita a far notare che, per Marx e i suoi eredi, la classe non ha nulla a che fare con il comportamento, non è una questione di «sentimenti», ma di «ciò che si fa». Oppure, per tranquillizzare il lettore, il critico inglese invita a credere che il marxismo nulla abbia a che vedere con il determinismo o con il riduzionismo, giacché l'umanesimo stesso di Marx vale come salvaguardia dell'espressione individuale (e persino spirituale). E via volgarizzando, semplificando.
Insomma, al di là del piacere estetico che si può ricavare dalla lettura, il libro non offre tanti spunti di riflessione, solo qualche argomento interessante da dibattere, e per il resto pochi rilievi sulla situazione politica ed economica d'oggi. In fondo, anche il titolo risulta incomprensibile: il lettore non informato rischia di non comprendere per quale motivo Marx continui a stimolare l'intelligenza di tanti studiosi. Eagleton si conferma eccessivamente bravo nel sarcasmo con cui dipinge le strategie ideologiche del neoliberismo, ma non altrettanto capace di contrapporre una serrata demistificazione di quest'ultime. È un vizio del marxismo letterario e culturale degli ultimi tempi, quello di concepire la prassi politica come un semplice rendez-vous testuale.
il manifesto 15 settembre 2011
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