16.9.14

1945. Tutti contro Parri (Gianni Corbi)

Rievocazione, nel cinquantennio, di un momento cruciale della storia politica italiana, la caduta nel novembre del 1945 del governo Parri, il governo del “vento del Nord”, insediatosi subito dopo la Liberazione (giugno 1954). Il punto di vista del giornalista è manifestamente vicino quello dell'“azionismo” e dunque le responsabilità di quella caduta, giudicata un'involuzione, sono equamente divise tra le forze moderate (liberali e DC) e i socialcomunisti; e tuttavia Corbi non tace che anche il Partito d'Azione abbandonò al suo destino quel governo e il suo presidente, quello che Walter Binni, che lo aveva conosciuto nella cospirazione antifascista, avrebbe un giorno definito “un volto nobile tra tanti ceffi ignobili”. (S.L.L.)
Settembre 1945. Il presidente Parri visita a Milano la mostra sulla ricostruzione
Cinquant' anni fa, nelle agitate settimane dell' autunno 1945, la caduta del governo Parri segnò una svolta nella storia politica del nostro paese. Un cambiamento decisivo che pochi avvertirono ma che dava inizio, col primo ministero guidato da Alcide De Gasperi, al lungo predominio democristiano.Fu una crisi complessa e drammatica. Una crisi che ancora oggi, a mezzo secolo di distanza è una ferita non rimarginata, una specie di rimorso non dimenticato della sinistra italiana. Una sconfitta forse necessaria e inevitabile, ma che accelerò la fine dell'Italia della Resistenza e dette il via alla lunga serie di governi moderati all'insegna della Democrazia cristiana.
Parri si dimette il 24 novembre del 1945 e viene sostituito due settimane dopo, il 10 dicembre, da Alcide De Gasperi. Ma per comprendere il senso di quell' avvenimento bisogna fare un passo indietro di cinque mesi. Il 21 giugno del 1945, sospinto dal "Vento del Nord", Ferruccio Parri - il popolare "Maurizio" e leader del Partito d' Azione - arriva a Roma per sostituire alla guida del Governo il vecchio notabile dell'Italia liberale Ivanoe Bonomi. Il cambio non è indolore. La nomina di Parri arriva infatti solo dopo un tormentato braccio di ferro tra i rappresentanti di un'Italia del Nord che vive ancora nel clima della Liberazione, e i politici rimasti a Roma a ricostruire, a restaurare, a ricucire, a mettere un po' d'ordine in un paese moralmente e materialmente distrutto.
Nell'estate del 1945 l'Italia è, per molti aspetti, ancora spaccata in due, psicologicamente e politicamente. Lo spettacolo è desolante. Le comunicazioni sono praticamente distrutte, i servizi essenziali paralizzati. Gli italiani non sono mai stati così magri. La razione, per la maggior parte della popolazione, è al limite della sopravvivenza: 150 grammi di carne alla settimana, 500 grammi di olio e due chili di pasta al mese. Distrutti 2.986 grandi ponti e il 40 per cento delle aule scolastiche. Gli italiani camminano sulle macerie. Si spostano su camionette e carri bestiame. Si affidano per mangiare alla "borsa nera" e al buon cuore degli Alleati.
Con l'arrivo di Parri sembrò per un momento che un nuovo ciclo politico si fosse aperto con l'obiettivo di rinnovare radicalmente le vecchie strutture dello Stato travasate nel fascismo. La premessa che muove Parri, e gran parte delle sinistre che hanno vissuto l'esperienza della Resistenza, è che non sarà possibile costruire uno Stato moderno e più giusto senza prima aver spazzato via il marciume del fascismo e dello stesso regime liberale anteriore al 1922. Progetti generosi ma destinati a scontrarsi con la realtà romana. Fin dal giorno del suo insediamento - il 21 giugno del 1945 - Parri dovette ben presto rendersi conto che lo scirocco della nomenklatura della Capitale era ben più forte del "Vento del Nord". Dopo cinque mesi di governo, l'accerchiamento di Parri è quasi completo.
Non sono solo i grandi burocrati a rendergli la vita difficile. Dopo cinque mesi di navigazione il popolare "Maurizio" è alle corde, come un pugile "groggy" scientificamente lavorato ai fianchi e al fegato dai partiti del Cln che pure avrebbero dovuto essere i suoi principali collaboratori. I giornali gli erano quasi tutti sfavorevoli e non lesinavano critiche ed irrisioni. Il settimanale di Guglielmo Giannini definiva il Partito d' Azione "il partito più ridicolo dell'Italia post-Federico Barbarossa". Perfino un giornale amico come “L'Europeo” metteva l' accento sulle debolezze del capo del governo e sul suo eccessivo, e sterile, moralismo. "Un profondo senso di disagio e di scontentezza", scriveva “L'Europeo”, "si è venuto diffondendo negli ultimi tempi nel paese, e forti correnti di opinione pubblica rifluiscono impetuosamente verso destra". Parri, aggiungeva il settimanale diretto da Arrigo Benedetti, ha una responsabilità molto limitata in tutto questo: "I disordini, le violenze di alcuni gruppi sbandati di partigiani, le intemperanze del Cln, la debolezza delle forze di polizia, il disordine dell' amministrazione, la precarietà della nostra situazione internazionale non sono certamente da imputarsi a lui". Ma a lui, è l' impietosa conclusione di Benedetti, "è da imputarsi la grande mancanza dell'opportunità politica, una specie di irresistibile tendenza alla gaffe".
Mentre Parri è alle prese con l'ordine pubblico, con la rimozione di prefetti e questori, con i problemi spinosi dell'epurazione e degli approvvigionamenti alimentari, i partiti di sinistra che avrebbero dovuto appoggiarlo (Psiup, Pci, Partito d' Azione) prendono sempre di più le distanze. I giudizi dei leader della sinistra su Parri sono durissimi, nella forma e nella sostanza.
Scrive Nenni nel suo diario: "E' una ghiacciaia. Parla impacciato guardandosi la punta delle scarpe e non reggendo lo sguardo dell' interlocutore. Io avevo finito per schivarlo tanto la conversazione è penosa con lui...".
Altiero Spinelli, che pure è del suo stesso partito, è addirittura insultante: "Parri, malinconico, timido, sospettoso, debole, testardo... Era e si sentiva un dispensatore di energia morale priva di vera volontà d'azione. Oggi è come un gufo abbagliato dalla troppa luce...".
Sul versante moderato, a parte De Gasperi che manifestò un certo fair play, l'attacco è frontale. Il leader dei liberali Leone Cattani lo descrive come un velleitario e un incapace: "Gli arrivavano montagne di carte che si accatastavano sul suo tavolo. Lui non usciva mai dalla sua stanza neppure per mangiare. Si faceva portare due uova al tegamino, dormiva su una branda". L' altra accusa è di non aver senso del suo ruolo: "Non c' era verso di fargli accettare il cerimoniale che si usa in certe visite. Lui desiderava di trattare alla pari con chiunque gli si rivolgesse. Quando un partigiano andava a trovarlo al ministero entrava nella sua stanza e si sedeva mettendo i piedi sul tavolo".
Sarà proprio il liberale Cattani, un avvocato di 39 anni, bell'uomo, carattere difficilissimo, come Parri coraggioso oppositore del fascismo, ad aprire la crisi. E' lui, il 23 novembre del 1945, a scardinare il governo Parri dall'interno. E' lui a presentare un decalogo di condizioni inaccettabili: dalla liquidazione del Cln alla fine dell'epurazione e al ritorno dei prefetti di carriera. Ed è infine ancora Cattani, a portare avanti con decisione la candidatura di Alcide De Gasperi.
Si è discusso a lungo di quella crisi, ricca di retroscena e di colpi di scena. Ma un po' tutti sono d'accordo nel riconoscere che la sinistra, tutte le sinistre, dimostrarono in quella occasione una scarsissima volontà politica nel difendere il loro naturale rappresentante. La crisi aperta da Cattani si conclude nel giro di ventiquattro ore con una tempestosa conferenza stampa convocata la sera del 24 novembre 1945 da un Parri perfettamente consapevole che il suo breve viaggio governativo è terminato. E, come spesso accade, non fu un esponente della politica ma un artista come Carlo Levi a cogliere il senso più profondo di quella drammatica e tumultuosa giornata. "Lo guardavo", scrive il protagonista del romanzo L' Orologio, "diritto in mezzo ai due compagni di destra e di sinistra, dai visi fin troppo umani, accorti, avidi di cose presenti, e mi pareva che egli fosse impastato della materia impalpabile del ricordo, costruito col pallido colore dei morti, dei fucilati, degli impiccati, dei torturati con le lacrime e i freddi sudori dei feriti, dei rantolanti, degli angosciati, dei malati, degli orfani, nelle città e nelle montagne... Dicevano che non fosse un uomo politico, che non rappresentasse nessuna forza reale, che non sapesse destreggiarsi nel gioco avviluppato degli interessi, che non fosse altro che un personaggio simbolico e neutrale. Ma egli rappresentava, o ne era piuttosto costruito, qualche cosa che non è negli schemi politici...". E, come epitaffio, le parole diventate celebri che Levi mette in bocca al protagonista del suo romanzo: "E' un padre. Un crisantemo. Un crisantemo sopra un letamaio".
Ai molti che lo rimproveravano per quella drammatica conferenza stampa notturna al Viminale, quasi un happening politico, Parri rispose che la sua scelta era obbligata. "Non avevo altro mezzo", dirà, "di comunicare col paese e spiegare cos'era successo. Se invitai i corrispondenti esteri fu perché avevo ottimi rapporti con loro e l'opinione internazionale, in quella circostanza, m'interessava più di quella italiana. Dissi che c'era una cosa che l'Italia non avrebbe mai potuto tollerare: il ritorno del fascismo. Dissi che la crisi provocata dai liberali era una porta aperta a questo ritorno. Sentivo che era in corso un movimento di riflusso, che l' Italia del Ventennio, sconfitta dalla Resistenza, mirava a una rivincita e che si sarebbe servita della crisi per ottenerla. Non dissi che democristiani e liberali si facevano complici del fascismo, ma lo lasciai capire. Dicono che questo sfogo fu un errore. Ma io non ero un Giolitti, non ero un ministro di professione. Non facevo calcoli. Il mio era un discorso ammonitore e io avevo il diritto di farlo".
Aver abbandonato senza combattere, o almeno fare una qualche resistenza, la posizione presidiata da Parri, non fu senza conseguenze all' interno delle sinistre. Venti anni dopo i protagonisti di quegli avvenimenti, interrogati da Manlio Cancogni per “L'Espresso”, si lasciarono andare ad una specie di autoanalisi critica che conserva ancora oggi un notevole valore storico e politico.
Giustificazione del comunista Giorgio Amendola: "Parri ormai era condannato. Rappresentava una posizione troppo avanzata, e le forze conservatrici non potevano accettarlo. Con lui non saremmo mai andati alle elezioni... Se Parri ci avesse chiesto di batterci non ci saremmo rifiutati. Ma dopo una breve resistenza lui stesso abbandonò".
Giustificazione del socialista Sandro Pertini: "Noi socialisti credevamo di poter sbarcare i liberali. Per questo avevamo accettato la caduta di Parri. L'esclusione dei liberali sarebbe stata il giusto compenso".
Giustificazione dell'azionista Ugo La Malfa: "Fu un grave errore abbandonare al suo destino senza combattere Parri: se si fosse formato un blocco di comunisti, socialisti e azionisti, i moderati avrebbero osato spingere a fondo? Io credo di no. Non conveniva loro. Avrebbero atteso. Ci lasciarono distruggere. De Gasperi ci liquidò, e con noi liquidò l' unico partito capace di spingere la democrazia senza spaccare il paese...".
Ferruccio Parri, più sincero, sostenne invece che le sinistre, consentendo ai liberali di abbattere il suo governo, "garantirono la continuità dello Stato fascista, con i suoi istituti, le sue leggi, i suoi privilegi".


“la Repubblica”, 24 novembre 1995  

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